Cinema

Joker: un ottimo prodotto del capitalismo

16 Ottobre 2019

Joker non è il classico Cinecomic. Anzi poteva chiamarsi in un altro modo o coinvolgere altri personaggi per quanto pesino i riferimenti alla saga di Batman. È un film potente, e molto profondo anche rispetto alla triologia del Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan. Gli unici aspetti vagamente fumettosi sono estetici, o in qualche passaggio di stile della sceneggiatura. Dal punto di vista tecnico ben poco si può dire se non che è un eccellente prodotto dell’industria cinematografica. Per questo preferisco parlare di quello che il film prova a trasmettere dal lato puramente intellettuale. (Attenzione agli spoiler!)

Joker è la storia di Arthur, un uomo ancora giovane che vive con la madre e per motivi, più o meno esplicitati, possiede un disturbo psicologico che lo porta a ridere quando prova sofferenza o mortificazione. In un tempo cinematografico relativamente breve il film racconta la discesa/ascesa di Arthur alla follia di Joker attraverso una serie di avvenimenti infelici, che appunto scatenano la sua risata.

La sua follia però non è affatto innata. Sono gli eventi che separano un’instabile identità iniziale da una stabile pazzia. Il folle è prodotto dalla società che è descritta nel film, una mondo che è banalmente il nostro. Lontano dalle pubblicità colorate, dai filtri di Instagram, dai sorrisi di cortesia, in Joker troviamo quello che è la società del tardo capitalismo nuda e cruda, non edulcorata e senza eufemismi. Il folle, come direbbe Ervin Goffman, è prodotto dall’istituzione totale, dal manicomio: io divento folle perché sono in manicomio. Così Arthur è condotto alla sua prima pazzia dalla madre che (forse) l’ha maltrattato: e come rideva delle sevizie anziché piangerne, ora ride davanti alla società che l’ha legato e torturato allo stesso modo. Questo Asylum è l’intero mondo: come se la scena finale in cui lo vediamo nell’istituto ci dicesse che è stato rinchiuso lì dall’inizio del film, anche quando lo pensavamo per strada. È l’intera società che è un’istituzione totale.

Istituzione totale significa un luogo che crea un suo micro-ambiente. Il manicomio è un luogo in cui smetto di essere libero e divento prigioniero: lì svolgo qualsiasi fase della mia vita, apprendo nuove regole, una nuova cultura e vengo privato di ogni cosa che ero, il periodo di detenzione può finire ma è la trasformazione, la rettificazione e la spogliazione anche materiale di chi ero e non sono più, a definire l’istituzione totale. Joker ci dice che la società di oggi è un mondo che ti fa diventare quello che sei con le sue regole, i suoi riti iniziatici, i tempi innaturali ed imposti dai ritmi del lavoro, gli obblighi esterni a cui non si può trasgredire. Sono necessari individui che sono disposti al controllo e altri che devono obbedire, ed è importante il ruolo di subordinazione sia nella burocrazia, guardia-carcerato e poliziotto-cittadino, sia nelle dinamiche interne come tra internati o tra due persone di diverse classi sociali, ad esempio Wayne e Arthur. Anche questi ultimi sono rapporti istituzionalizzati anche se non burocratici.

Joker però non vuole criticare le possibili violenze dello Stato o dei rivoltosi, rimane centrato su una sola persona e pochi comprimari. La polizia è una volta aggredita e l’altra aggredisce. Il Joker è violento ma anche sensibile. Le maschere stabiliscono i personaggi, chi la porta del clown e chi porta quella del suo ruolo nella società. Il focus del film è soggettivo. Arthur a tutti gli effetti guida la scena e lo seguiamo personalmente nella storia, nel percorso dell’istituzione totale con i riti di iniziazione, le violenze e le umiliazioni. Nell’ingiustizia e l’abbandono da parte di quello che è una struttura politica fantasmatica ed impegnata nel suo cambio di oligarchi al potere.

La violenza si accomuna con la speranza, e la speranza con la disillusione. È innanzitutto una violenza interna e lacerante, che però è anche esterna e prevista dal sistema, anzi regolata ed utile allo stesso. Sono le botte dei teppisti ma anche la voglia di riuscire a ottenere qualcosa di migliore di quello che si ha. Una speranza che se tradita fa ricadere nella frustrazione. Come in manicomio se sgarri le regole per uscirne il periodo si allunga o c’è l’isolamento, oppure le botte dalle guardie. Così se sbagli la strada per migliorare la tua vita aumenta il periodo che trascorri nella tua condizione di svantaggio, oppure diventi un reietto, o ancora c’è la violenza mentale della depressione, dell’ansia, etc: il meccanismo di controllo è interno più che esterno.

È solo quando la speranza si spezza e la disillusione crolla che nasce la rivolta, perché anche la rivolta come il folle è un prodotto. La privazione della propria identità avveniva nei conventi benedettini con la spogliazione dei propri averi terreni. Il sesso è un’altra privazione che viene idealizzata, un altro togliere per sostituire con un pezzo nuovo differente e docile, riformato. A Joker invece viene dato qualcosa, una pistola; come in Inception di Christopher Nolan anche questa è un’idea che però è dispositivo materiale. È quello che dà la svolta al personaggio, che spinge la biglia giù dal piano inclinato. Non è come il Jake dei Blues Brothers che introduce e conferma la propria identità ben definita uscendo dal carcere, l’istituzione totale, riappropriandosi di cappello e occhiali neri. Jake Blues vuole rimanere ciò che è in una società che cambia; all’opposto ad Arthur viene consegnata con l’arma la possibilità di essere sé stesso, in un mondo statico e che non gliel’ha mai consentito.

Questo mondo è così per colpa dei ricchi dice esplicitamente il film. Kill the rich si legge sui giornali. Mettilo a ferro e fuoco. Mark Fisher col suo ormai classico Realismo capitalista però ci ha insegnato a diffidare delle rappresentazione cinematografiche critiche del capitalismo. Nel mondo cinico in cui viviamo, in cui pure la catastrofe del cambiamento climatico viene vissuta con distacco, abbiamo una data di scadenza e continuiamo a vivere la nostra vita come se nulla fosse, un film non può certo smuovere le coscienze. Anche se dice esplicitamente che l’ingiustizia sociale, il capitalismo, è la causa per cui la responsabilità di avverare le proprie aspettative spetta al singolo individuo, ma questi subirà la violenza sistemica di prima perché mai potrà realizzarle.

Però il film fa un tentativo artistico di eludere il paradosso ideologico di Fischer per cui nonostante la distopia che guardiamo al cinema è vicina alla realtà, noi la sentiamo sotto controllo anziché pretendere il cambiamento. Sì la violenza è nichilista e sconclusionata, anche se individua la classe ricca come colpevole: il capitalismo è il padre, Thomas Wayne ricchissimo e disinteressato, che ha prodotto la follia del Joker. Così però tutta la storia può essere un prodotto della mente del Joker. C’è sempre una doppia produzione: ciò che è folle e ciò che è normale. Ma c’è anche un doppio dubbio che rimane su quale che sia realtà o follia. Il film dunque non è un invito alla rivolta o una descrizione della stessa. Il film descrive invece lo spettatore e il passaggio dell’enigma, su cosa sia reale o no, dalla mente del Joker a quella di chi guarda. Rimanda a noi il dilemma su chi sia il folle tra Arthur e il Joker, se c’è l’inversione del mostro. E se la follia invece che rivoltarsi fosse effettivamente non farlo? Il film nel finale aperto ci fa ritrovare internati nel manicomio in un caso o nell’altro. La società, che ormai è istituzione totale, ci terrà prigionieri come potrebbe esserlo stato Arthur fin dall’inizio, o il Joker alla fine.

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