America

Qualche nota su American Sniper, vero cinema politico

20 Febbraio 2015

Domenica notte si assegnano gli Oscar. Quelle che seguono sono alcune note (pensate per chi ha visto il film), di certo non una recensione, su American Sniper, uno dei film più controversi e belli che concorrono per il miglior film.

Spunti su American Sniper [Attenzione SPOILER]:

1.     È un film che ipotizza che un barbecue in Texas possa essere peggio della guerra in Iraq

2.     È un film su un mito, un eroe, un po’ come un film su Che Guevara, Gramsci, o Fred Hampton. Solo che è un eroe della destra, e dal punto di vista della costruzione di un tale immaginario eroico che va considerato.

3.     Si può continuare a scrivere di film senza pensare che uno spettatore alla fine del film possa andare a casa e digitare Chris Kyle (il protagonista di American Sniper) su Google?

4.     Il cinema non ha più nulla da dire, dicono alcuni. I film dicono altro, e quest’anno passato, magari un anno gramo, ce lo hanno dimostrato almeno in quattro: Godard col suo 3D che sia finalmente un 3D, quindi con una radicale presa di coscienza che lo spazio cinematografico può essere completamente ripensato, Birdman e Boyhood con il loro sovvertimento del tempo cinematografico. E poi c’è Eastwood, che reinventa il cinema politico.

Al netto di qualunque altra considerazione, ciò che succede in American Sniper è chiaro, quasi banale: Chris Kyle è il cecchino più letale che l’esercito americano abbia mai avuto, fa parte dell’unità più d’élite che esista, uccide a ripetizione, avendo un rapporto intimo col nemico come solo un mirino sa dare. Va quattro volte in Iraq, ma nelle pause, a casa, non riesce a staccare, non è sano, finché non risulta chiaramente affetto da PTSD, Disturbo post traumatico da stress. Ne esce aiutando gli altri veterani, come in Iraq aiutava i marines – il cecchino infatti sta sui tetti a coprire i compagni – così negli USA aiuta i compagni che non riescono a reinserirsi, o che hanno perso una gamba e bisogna assisterli. Ma un giovane vecchio commilitone, che a fare il soldato si diventa vecchi in fretta, lo uccide brutalmente ad un poligono, proprio quando Chris Kyle era ormai un uomo reinserito nella società americana. End of the story.

Il Texas (ma anche la California, la Georgia, il Mississippi, etc), il caldo, il sole, i barbecue all’aperto. Chris Kyle torna a casa in una delle quattro pause, e naturalmente con i bambini e la moglie non si fa mancare il canonico barbecue. Il barbecue è un po’ come l’aperitivo a Milano: rappresenta tutto un mondo: quello del barbecue sono le casette a schiera, la suburban life, la macchina grande, possibilmente un pick up, rappresenta insomma un certo tipo di ideologia americana nella sua quintessenza. Boyhood e The tree of life ne sono imbevuti, vivono nel barbecue e nella vita di periferia bianca americana (ricordate in Boyhood la scena con fratello e sorella che vanno porta a porta per il padre e si imbattono in una casa con la bandiera confederata? Ecco così). American Sniper ci mostra come Chris Kyle, freddo cecchino, impassibile quando uccide come fosse in catena di montaggio (alla fine del film tutto quello che rimane nella testa è un il ptuf ptuf delle pallottole), preciso, maniacale, perde la testa sotto al sole texano ma non sotto a quello iracheno. American Sniper sembra ipotizzare che un barbecue in Texas possa essere peggio che la guerra in Iraq, uccide più lentamente, più ferocemente.

Ha scritto Pietro Bianchi su Le parole e le cose  (citazione lunga ma utile):

“Bisognerebbe però forse iniziare ad accettare il fatto che l’ideologia conservatrice, religiosa e machista – per quanto insopportabile essa sia, e Dio solo sa quanto nauseabonda e inqualificabile sia la destra americana – abbia ormai egemonizzato nel profondo l’America blue-collar: quel popolo di lavoratori, militari e veterani dell’America rurale che [sono andati] a vedere nelle multisale di provincia questo film e […] andranno a chiedere al film la domanda che tutto questo popolo si sta chiedendo in tutti i modi da anni: ne è valsa davvero la pena di versare il nostro sangue per questa guerra (sottinteso: questa guerra che tutti i liberal e gli universitari snob di New York o San Francisco dicono che è stata così brutta e terribile)? E vogliono sentirsi dire solo una riposta: sì, lo è stata. E pure comprensibilmente.

Eastwood […]  gliela darà nella forma che loro non si aspettano: tirando fuori la guerra da quell’ideologia igienica e ipocrita di chi non ha voluto sentirne la puzza di morte e non ha voluto vederne le immagini. Gliela farà vedere con i veterani che soffrono di Stress Post-Traumatico o che hanno perso un braccio o una gamba al fronte, e che pure mantengono la dignità di chi continua a essere grato con chi in Iraq c’è stato. Gliela farà vedere attraverso uno degli eventi più incomprensibili e spaventosi di una guerra: una morte che viene data da un proprio compagno e non dal nemico. E se non è un gesto di cinema politico questo, allora non sappiamo davvero che cosa il cinema politico possa essere oggi”.

Insomma, la guerra in Iraq fa schifo, noi lo sappiamo, Eastwood lo sa, pure Kyle lo sapeva, pure i repubblicani lo sanno. Quell’America lì di cui parla Bianchi, che sta a casa al caldo nei suburbs forse non lo sa, un po’ perché vengono messe in atto precise strategie un po’ perché accecati da un’ideologia è difficile crederci che la guerra, la tua guerra giusta, faccia schifo. Ecco Eastwood le precise strategie che nascondono l’inutilità della guerra (far vedere sui grandi media solo alcune cose, raccontare nascondendo, e via dicendo) le sovverte sottilmente, non apertamente come vorrebbero alcuni grossolani critici che vogliono sentirsi raccontare la favoletta in modo chiaro; Eastwood invece fa andare al cinema l’uomo medio americano a fargli vedere quanto è brutta la guerra, e non lo fa con un film apertamente e stupidamente pacifista, un film insomma per quei liberal lì di New York o San Francisco. Su Jacobin, il giornale della giovane estrema sinistra americana, cercano persino di capire di vedere il film come strumento politico, di capire quanto possa aiutarci nella costruzione di un movimento contro la guerra, proprio perché fa così presa su chi la guerra la vuol fare. C’è quindi tutta la questione dell’eroe: Kyle lo era, con tutto l’immaginario simbolico a ciò legato, dalla memorabilia, alla presenza massiccia al funerale, alla biografia e tutto il resto (si veda, anche solo l’inizio, del tributo della NRA, la lobby delle armi). È un film su un eroe, e come tale va visto. Un eroe ucciso non da un iracheno, ma da un compagno (che è suo fratello, dice Roberto Manassero in un altro pezzo molto bello), che hai appena fatto salire sul tuo pick up, davanti alla tua villetta a schiera, per andare al poligono a sparare. La storia esemplare, quella su cui si costruisce il mito, è una storia in cui l’America profonda uccide. Non è un messaggio particolarmente di destra. E poi in quel finale tutto diventa vero, come vere sono le immagini girate proprio al funerale. E lì si vedono, si vedono quei volti, alla ricerca di un eroe, alla ricerca di un qualcosa in cui credere. [servisse poi una dimostrazione che forse mica parla solo all’America di destra, ci pensa l’istrionico vicepresidente degli Stati Uniti, democrat, che a fine proiezione si lascia andare in un complimentoso: “it’s insense man” e come ha scritto Dennis Jett su New Republic “We live in a democracy where the people elect the government, and therefore citizens cannot escape the blame for what it does. In that sense, it is not just Kyle who pulled the trigger. We all did” . Del resto lo sniper del titolo è American, non necessariamente di destra, proprio americano).

Eh, ma nel film non si vede che Kyle era un repubblicano marcio, che era un’amicone delle lobby delle armi, che era un contaballe mitomane vergognoso, al massimo si vede un’ingenuità un po’ naive dell’uomo che vede le torri che cadono e gli scatta la molla per andare a sparare agli arabi. Appunto, si vede un’esperienza quasi normale, resa speciale solo dalla precisione chirurgica del suo fucile, non dalla sua vita fuori campo (verrebbe da dire, usando una metafora calcistica), un’esperienza in cui tanti si possano identificare, in maniera aspirazionale magari, ma identificare. E poi, il resto, il fuori campo/fuori dal campo, lo si aggiunge, andandosi a cercare chi era Kyle, cosa faceva, e via dicendo. O vogliamo veramente continuare a pensare che i film siano queste cose autonome e non pienamente inserite nell’ambiente fortemente mediale in cui viviamo?

Chris Kyle muore, muore quando la morte non era più, come in Iraq, una compagna necessaria e quasi ossessiva, muore quando torna in mezzo ai pro vita (pro-life, così si chiamano i movimento contro-abortisti estremisti americani), muore quando la moglie era riuscita lentamente a riportarlo alla vita, muore ucciso da un bianco. Muore insomma quando non era previsto, e come non era previsto. Questo sì che è inaccettabile per la società americana. Questo sì che è cinema politico.

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