Cinema
“In Bloom”, fiorire in una Georgia di cemento
Il cinema aiuta a capire il mondo. È questo il caso di un lungometraggio, d’esordio, della regista georgiana Nana Ekvtimishvili (assieme a Simon Gross), ambientato nel 1992, un periodo molto importante per tutte le repubbliche ex-sovietiche che, come nel caso della Georgia, hanno cercato di acquisire la propria indipendenza una volta dissolto il blocco orientale tenuto saldamente nelle mani dei burocrati moscoviti. In Bloom è interamente girato a Tiblisi e vede come protagoniste due giovani donne alle prese con la difficile vita quotidiana durante una guerra civile che aveva modificato le loro esistenze in ogni singola parte, scuola, amici, famiglia e che cambierà per sempre il proprio futuro.
È opportuno inquadrare meglio la situazione storica in cui si trovava, al momento della narrazione, la Georgia, un paese che allora – siamo nei primissimi anni ’90 – come adesso, basava gran parte della propria forza lavoro nel settore dell’agricoltura ed era minacciata dall’esistenza di diversi movimenti separatisti – essenzialmente osseti e abcasi – che richiedevano un maggiore riconoscimento nel nuovo ordine geopolitico che si era creato dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. La Giorgia voleva far valere la propria indipendenza, ma allo stesso tempo si opponeva energicamente al separatismo interno. Non è un caso infatti che nel film si senta spesso parlare degli Abcasi come di una popolazione che pretendeva troppe libertà dal governo di Tiblisi, città in cui le due protagoniste vivono. Tra le zone interne dell’ex stato sovietico vi era di fatto una guerra civile che impoverì maggiormente il paese che a differenza delle repubbliche baltiche, anch’esse indipendenti, non aveva trovato un avvallo da parte degli Stati Uniti che ritennero le questioni relative alle regioni del mar Nero come affari interni sovietici.
La Georgia ottenne la sua indipendenza sotto la guida di Zviad Gamsakhurdia, ma fu solo dopo un anno che si trovò ad avere a che fare con le forze separatiste dell’Ossezia del sud, situazione cui i russi dovettero ulteriormente fronteggiare grazie anche all’intervento diplomatico di Eduard Shevardnadze che in futuro diventerà primo ministro del governo di Tiblisi. Il 14 luglio del 1992 si cercò di mantenere la pace costituendo una Commissione di Controllo unita, con il pattugliamento russo, georgiano-osseto, ma allo stesso tempo, un’altra regione secessionista, l’Abcasia, aveva innescato un conflitto che ben presto fece precipitare la situazione. I separatisti, nel settembre 1993, riuscirono a prendere la capitale Sukhumi dopo un violento combattimento, per una guerra che costò circa 20mila morti da entrambe le parti, 260mila rifugiati ed un gran numero di sfollati.
È in questa situazione storica che troviamo le adolescenti Eka (Lika Babluani) e la sua migliore amica Natia (Mariam Bokeria). L’ambiente in cui si trovano tutti i giorni dà benissimo un senso di grigiore e decadenza, palazzi costruiti per il popolo con ambienti strettissimi, strade dissestate, gang di giovani che rendono le passeggiate poco sicure. “All’epoca, sotto il presidente Saakashvili, non avevamo elettricità, a volte niente acqua, a volte niente da mangiare – racconta la regista Nana Ekvtimishvili in un’intervista -. Ci sono stati miglioramenti economici sotto Giorgi Margvelashvili. Ma i georgiani avevano bisogno di cambiamenti nella società, ancora oggi in Georgia, abbiamo argomenti controversi come la religione e i diritti degli omosessuali. È tempo di andare verso una direzione più sana”. È proprio l’esperienza personale ad aver giocato un ruolo importante nella resa del film. Tiblisi, come nelle stesse memorie della regista, è un luogo dimenticato da dio, dove nelle strade la gente litiga per avere un pezzo di pane e dove le armi girano con estrema facilità tanto che alla radio un cronista sottolinea il fatto che “ogni georgiano dovrebbe avere un fucile”. E non è strano che poi tutto il film ruoterà attorno ad una pistola, un’arma e un proiettile che Lado (Data Zakareishvili) regala a Natia, per farla sentire più sicura e per difendersi mentre lui fa un viaggio a Mosca, sperando di tornare in fretta per poi sposarla. Veniamo così a conoscenza di un mondo femminile ancora tenuto sotto una profonda pressione maschile “Le persone si sposano ancora molto giovani – dice la regista -, le ragazze vivono con i genitori e non gestiscono la propria vita, non hanno soldi, non hanno un lavoro e non hanno nemmeno un ragazzo a meno che non venga “legalizzato” con un matrimonio. Nel 2013 (anno in cui è stato girato il film ndr.) settemila ragazze in Georgia hanno lasciato la scuola per sposarsi e se gli chiedi il perché loro rispondono di averlo fatto di spontanea volontà, senza alcun problema. Ecco perché è stato importante parlarne e mostrarlo nel film”.
Lo sbandamento di un paese vive poi nel riflesso delle vite delle singole famiglie. Quella di Natia comprende un fratellino chiassoso, un padre alcolizzato e una madre tenuta in scarsa considerazione; quella di Eka è profondamente segnata dall’assenza del padre, il cui unico “ricordo” è custodito in un cassetto in cui si trova una scatola piena di lettere, un passaporto russo e una sigaretta. In Bloom è essenzialmente costruito su vari episodi che raccontano la vita quotidiana delle due ragazze, descritti e messi insieme dai registi e da Stefan Stabenow che si è occupato del montaggio. Cosa possiamo osservare e cosa attira di più l’attenzione dello spettatore? Sicuramente le tradizioni e i valori familiari, in una società in cui sono gli uomini ad avere l’ultima parola, in cui non si lesina sicuramente l’uso della violenza e in cui le donne reggono il peso della famiglia senza avere un’adeguata riconoscenza. Natia, che si troverà improvvisamente sposata con un uomo che non ama ne diventa un esempio più che lampante. Al suo matrimonio, un giorno di festa, poi la monotonia di una vita da reclusa in una quotidianità familiare da cui non riesce più ad uscire. Proprio durante il matrimonio di Natia si ha una delle scene più belle del film: Eka si libera di ogni inibizione ed inizia a ballare. I registi regalano in questo caso una sequenza avvincente che racconta un’emozione privata in un contesto pubblico. Mentre Natia sorride ma capisce di essere ormai bloccata nella sua nuova esistenza, Eka esprime la propria personalità proprio all’interno di una cultura e di una società che tende a reprimerla, mentre balla acquisisce consapevolezza della propria forza e non ha paura degli adulti, della loro autorità e del loro mondo precostituito.
La scelta delle due protagoniste è stata fortuita ma allo stesso tempo è stata fondamentale per la riuscita del film. Mariam e Lika sono due normalissime studentesse che hanno avuto subito un ottimo approccio con le prove, in cui i registi hanno scelto di lasciarle molto libere, ricercando un taglio quasi documentaristico in cui le espressioni, i gesti e i sorrisi dicono più di quanto rappresentano in realtà. In piena “fioritura” (come si legge nel titolo), le due protagoniste crescono dunque in un contesto selvaggio e brutale in cui persino il corteggiamento diventa crudele e privo di sentimento, fino a sfociare in una guerra personale tra due contendenti e una ragazza che non riesce ad uscire dalla situazione in cui si trova, come fosse messa alle strette dall’intero mondo maschile oltre che dalla società. Anche gli ambienti domestici, quasi claustrofobici diventano un desolato palcoscenico per i drammi personali ed è lì, come nelle strade, che si realizza il “neorealismo” della pellicola, in cui ogni attore comunica anche attraverso i gesti ciò che non traspare dalle parole o dalle fugaci battute in famiglia. Sono le stesse mura familiari, e la città a diventare come una scatola in cui piccoli fiori cercano la luce per crescere, emanciparsi e resistere ad un momento in cui tutto attorno sta cambiando, mentre “socialmente” rimane tutto uguale.
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