Cinema
Il cinema di Loach: viaggio nel mondo dei lavoratori e dei loro diritti
“Quelli che stanno in alto
si sono riuniti in una stanza.
Uomo della strada
lascia ogni speranza.
Oggi mi hanno fatto vedere il loro mondo
Ho visto solo il dito tutto insanguinato,
E quegli imprenditori: gliene basta
Uno su tre e lo sfruttamento a dovere.
Ai non selezionati ho detto: quelli dovete supplicare,
di economia, io non capisco un’acca.”
Lo scopo del cinema è di raccontare storie di fantasia, ma è anche quello di fare da cassa di risonanza a situazioni che fanno parte della vita di tutti i giorni, per rappresentare il disagio e lo status esistenziale di categorie di persone su cui i riflettori non si poggiano, perché poco attrattive per i bisogni del mercato. Ken Loach ha fatto della coerenza la propria concreta bandiera di vita, caratterizzandosi per opere di spessore, riuscendo a elevare il cinema a strumento di denuncia del disagio sociale. La forte capacità di racconto di Ken Loach, unita alla consistenza del suo impegno civile e politico, dà vita a un cinema in grado di ispirare un dibattito, quello sul mondo del lavoro e i suoi cambiamenti, che appare sempre più urgente e importante nel mondo e nell’Italia di oggi.
The Old Oak, presentato in concorso al Festival di Cannes, potrebbe essere l’ultimo film del cineasta che vorrebbe ritirarsi definitivamente dalle scene. Alla veneranda età di 87 anni, torna a trattare temi politici e sociali, calando la sua storia in una cittadina in declino dell’Inghilterra nord-orientale, dove aveva già ambientato le sue due precedenti pellicole, “Io, Daniel Blake- con cui ha vinto la Palma d’oro a Cannes- e “Sorry We Missed You”.
Sono duri i film del più politico dei cineasti, da mezzo secolo sulle barricate dalla parte dei poveri e dei diseredati del mondo. Anche l’ultimo film “Sorry we missed you” -dal biglietto che i fattorini di Amazon lasciano nella buca delle lettere- è dedicato ai nuovi schiavi, i lavoratori della cosiddetta Gig Economy, l’economia dei «lavoretti», che include Amazon, i riders del food delivery, i fattorini, e tutto il mondo che ruota intorno al mondo delle App e dei lavori precari. Racconta un nuovo mondo del lavoro: quello che l’economia globalizzata delle grandi aziende on line ha messo in piedi. Un mondo fatto di orari e condizioni disumane, una nuova schiavitù travestita da libertà. Da una parte c’è la natura del sistema economico basato su aziende private che si fanno concorrenza su qualità e prezzi, che premono sempre per tagliarli, e tengono bassi abbattendo di continuo il costo del lavoro, come ha fatto Amazon, dall’altra i sindacati che hanno smesso di rappresentare i diritti dei lavoratori, accettando il sistema basato sul business e sul profitto. La flessibilità, valore indispensabile del nuovo modo di concepire il lavoro, è stata un vantaggio per i datori di lavoro, per le grandi società, ma un disastro per i lavoratori. Flessibilità ha significato precariato, i nuovi working poor di cui ci parla Loach che non possono pianificare la vita, pensare di comprare una casa se non c’ è niente di sicuro.
La tecnologia che sembrava un mezzo per arrivare alla liberazione del lavoro, lo ha reso sempre più insostenibile e alienante. Le aziende si sono comprate i brevetti e quindi sono diventate le proprietarie della conoscenza. Nel momento in cui la conoscenza è diventata una merce, può essere comprata e venduta. Ed è quello che hanno fatto i datori di lavoro. É successo anche nel cinema, sottolinea il regista, che può fare a meno di fonici e assistenti. Ora una persona può fare tutto da solo a discapito, certo, della resa qualitativa.
Rai5 ogni Martedì in prima serata e la Domenica in seconda serata e in lingua originale, trasmette per il ciclo BreadandBrexit una serie di film diretti da Ken Loach. “I, Daniel Blake”, è stato il primo con cui si è aperto il ciclo, il primo colpo al cuore con cui il cineasta britannico ci racconta uno spaccato della società di oggi, vista con gli occhi di un vedovo inglese alle soglie della terza età, di professione carpentiere, che vive nel nord-est dell’Inghilterra, costretto a ricorrere alla richiesta di un sussidio statale a seguito di una crisi cardiaca. Fin qui nulla di strano, se non che, per via di una serie di incongruenze burocratiche, in attesa che la sua pratica per il sussidio venga esaminata, Daniel è costretto a cercarsi un lavoro per non incorrere in sanzioni governative. Nel frattempo, al centro per l’impiego conosce una giovane ragazza madre, Katie, anch’essa alle prese con la ricerca di un lavoro per mantenere i suoi due bambini. Con lei, Daniel instaura un particolare rapporto di amicizia e scopre quanto sia capace di rendersi ancora utile, nonostante la società voglia per forza relegarlo ai margini. Con “I, Daniel Blake”, Loach confeziona un film rigorosamente politico, come è nel suo stile, senza cadere nella stucchevole e finta denuncia sociale fine a se stessa. Bastano piccole pennellate di regia per raccontare il dramma di un uomo (interpretato da Dave Johns) ancora attivo e operativo, sia mentalmente che fisicamente, ma che per la società in cui vive – regolamentata da rigidi protocolli e dall’assoluta mancanza di buonsenso – è costretto a sentirsi inadatto. Sembra quasi una farsa, eppure la drammaticità di un sistema incentrato sulla burocrazia e dove ogni cosa presuppone l’utilizzo del Web fa sì che la compilazione di una semplice domanda per richiedere un sussidio rappresenti un ostacolo insormontabile. E la volontà del protagonista, unita a quella di Katie (Hayley Squires), giovane ragazza madre costretta alle attività più disonorevoli pur di sbarcare il lunario, trova una comune inadeguatezza in una società che li considera invisibili, e come tali condannati a un’esistenza ai margini. Eppure non sono numeri, non sono lavativi, non sono delinquenti. Sono persone, che vogliono trovare la propria realizzazione nel rendersi utili a se stessi e alla società. Colpisce l’interpretazione di Johns che incarna un personaggio abituato a non tirarsi indietro, che vuole rivendicare il proprio diritto all’esistenza e che non ci pensa un attimo a prendere le difese di Katie, sanzionata al centro per l’impiego per un banalissimo ritardo dovuto alla non conoscenza della città. E colpisce anche l’interpretazione della Squires, che mostra tutta la propria fragilità e il proprio affetto verso colui che considera come un padre.
ken Loach che da sempre fa film di sinistra, se per ‘sinistra’ si intende dare voce a chi non ha voce, non ha voluto pensare a immigrati extracomunitari ( viene in mente “Ladybird ladybird”), probabilmente per dare un segnale ancora più forte di come la società britannica – e più in generale quella europea – si stia involvendo rispetto all’attenzione che viene mostrata nei confronti della terza età e della malattia in generale. Loach ci fa sentire sulla pelle come questo Moloch non si presenti nelle vesti della brutalità, della prepotenza e del sopruso più appariscente. No, esso si esemplifica nei modi del mondo amministrato, di un muro inaccessibile, sordo, cieco, impassibile, rappresentato da quel muro su cui Daniel scrive:”I, Daniel Blake demand my appeal date before I starve”. Verrà per questo arrestato.
“Io, Daniel Blake” è un film sulla dignità calpestata dalla finta modernità, sui diritti violati, sulla libertà di esistere, e sulla deriva incivile di società fintamente civile per affermare principi di giustizia e democrazia. Una denuncia aspra sulla crudeltà e sulla tirannia di una società in cui non si salvaguardano valori che contemplano l’essenza dell’essere umano, della vulnerabilità, che non sostiene chi è fragile, ma se ne disfa, lo emargina. Un mondo in cui abolita la legge umana della comprensione, e del buonsenso, la fa da padrona quella della produttività in cui l’assenza o la lentezza di leggi che tutelano la persona, non in quanto lavoratore, ma come essere umano depositario di diritti inalienabili, come quello di ammalarsi, mostrano quanto siano fragili e precarie le basi della democrazia che assume i connotati di una feroce dittatura.
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