Cinema
Il Tommaso in croce di Abel Ferrara
Dopo Cannes e il Torino Film Festival, la prima in sala per Tommaso di Abel Ferrara ci ha spinto sull’Appennino Emiliano ai confini con la Toscana, a Porretta Terme. Nella quieta cittadina termale si è svolto in questi giorni l’omonimo festival del cinema e un’istintiva gratitudine va subito a questa edizione che ha presentato una versione originale (con sottotitoli) dell’ultimo lavoro di Abel Ferrara ad oggi fuori dai cosiddetti “spazi della grande distribuzione”.
Compilato il modulo dove la Regione Emilia Romagna si chiede (attraverso un Osservatorio dello spettacolo che compie ricerche sul pubblico) che tipo sia lo spettatore partecipante, chiedendogli per contro perché sia lì e se non se ne stia in qualche modo pentendo, siamo dentro allo storico cinema Kursaal per un film che grazie al titolo apostolico innesca un’immediata intimità col pubblico memore dell’omonimo lavoro di Kim Rossi Stewart, Tommaso, uscito nel 2016.
Tra i due Tommaso comune dominatore è l’Io interiore, la sua introspezione mossa dalle paure, le ossessioni e dai bisogni affettivi taciuti o negati; la deriva del primo Tommaso sarà ospedaliera e poi onirica, quella del secondo sarà escatologica e redentiva, lo vediamo crocifisso davanti alla stazione Termini assieme a probabili immigrati. In entrambi i casi siamo dentro storie autobiografiche, nel caso di Ferrara diremo poi familiari.
Roma è cooprotagonista discreta e languida in questo film dove tutto, confusamente, ruota attorno a un protagonista incarnato con forza e sentimento dall’amico e collaboratore del regista, Willem Dafoe: un corpo, un volto, capaci di indossare l’inestricabile groviglio di sentimenti e risentimenti, di ricordi e desideri di un regista americano che oggi vive in una Roma accogliente assieme alla giovane moglie e alla loro bambina. Questo film nasce dunque in famiglia, è girato in buona parte nella casa del regista, vi recitano l’amico e vicino di casa già protagonista in Pasolini, la moglie Cristina Chiriac, e la piccola figlia Anna. A tratti la sensazione – anche per la presa diretta del sonoro non doppiato, per la disinvoltura della tecnica di ripresa, il clima domestico dominante – è quella di un documento diaristico, o una lunga confessione dove la tecnica cinematografica si mette più al servizio dei sentimenti e meno degli effetti. Oltre a questo, il film non ha una trama sostenibile, è il dialogo interiore ed esteriore di un regista che si dibatte tra il suo lavoro, la famiglia e la vita che li attraversa, nei ritmi sincopati del quotidiano, senza alcun dominio del tempo. Non è un caso che Ferrara abbia girato prima di questo lavoro alcuni documentari, uscendo dalla fiction per poi rientrarci forse ibridandola di biografia e di famiglia come appunto in questo film.
Ferrara è considerato un regista iconoclasta, eccessivo, ma in questo ampio racconto di un uomo che in molto gli assomiglia, non riesce a superare le paure dell’esistenza attraverso l’esasperazione dei loro effetti: esalta piuttosto le prime, le indaga spiritualmente a suo modo, riducendo i secondi, a favore della cronaca degli stati interiori e delle loro farneticazioni. Tolto il finale, dove la stazione Termini diventa un Golgota di crocifissioni in cui si rivela – dopo avere percorso l’intera pellicola – la tentazione (forse l’ultima tentazione?) religiosa-escatologica dell’autore, gli episodi di allucinazioni a sfondo erotico e le ossessioni immaginifiche sono in linea con lo scorrere placido delle confidenze che Tommaso concede sul proprio passato di tossicomane e su un presente di quieta residenza romana, più tranquillo ma irrimediabilmente segnato da vecchi e nuovi demoni sui quali il racconto non mette troppo mistero: la gelosia per la giovane moglie, la sfida della paternità per un indomito quasi settantenne, la lotta con e per la propria creatività, infine le sempre insidiose tentazioni omicide. Ecco quindi lo sparo: precipitoso e goffo colpo di scena a discapito del giovane amante della moglie, insufficiente però a ribaltare le sorti di un film che resta più narrazione che azione, più documento e tecnica narrativa che “prodotto cinematografico”. Lo sparo contro il giovane amante è il culmine delle indifferenze e delle violenze verbali che serpeggiano nella coppia che abbiamo visto discutere banalmente e tentare di amoreggiare tra le mura domestiche con qualche tenerezza nello spettro dell’abitudine. La gelosia, il sesso, il desiderio carnale più che l’amore si agitano in Tommaso, tra apparizioni di nude bariste al banco e giovani amanti disposte ad effusioni senza seguito. In un parco primaverile vediamo la moglie flirtare con un biondo sconosciuto, ma siamo già scivolati nella coscienza torbida dell’autore, non distinguiamo più l’irrealtà dell’esaltato dall’alterazione dell’ossesso. Il nostro frequenta poi un gruppo di ascolto dove racconta la propria lontana dipendenza e allo stesso tempo dispensa perle di insegnamento in un laboratorio, passando dalla cortesia leziosa dell’americano a Roma a scatti d’ira contro un clochard ubriaco in strada. Non siamo davanti a un personaggio limpido e leggibile, così come ci racconta la stessa biografia di Abel Ferrara, che ha vissuto con pienezza e coraggio stagioni controverse della propria indole, dalla pornografia al buddismo, dai film splatter a padre Pio oggi di nuovo soggetto del suo cinema. Willem Dafoe, col suo sorriso spaventoso e il ghigno scimmiesco, con le stimmate del Cristo di Scorsese ancora aperte e gli occhi ferini di un Pasolini mai sepolto, riassume il senso profondamente umano e assieme bestiale di questo lavoro, intimo e spietato viaggio nella notte dell’uomo.
Molta critica ha bocciato il film per i tratti maliziosamente autobiografici, ma questo non è un film nella sua essenza: è un racconto a malapena inventato di e su un cineasta, senza l’enfasi cinematografica di un movie americano; senza del tutto volerlo ammettere, l’autore si spoglia davanti a un pubblico-specchio della sua nuova vita romana, in fondo felice, che oggi lo vede padre di una bambina di tre anni che chiude la pellicola. In un finale danzante la piccola dice “Basta” (o così è parso), sotto le eterne note di Carosone: Tu vuo’ fa’ l’americano, chiusura stridente, ironia svagata a dissacrare da capo tutto quanto. “Ma si’ nato in Italy”.
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