Cinema
Il piacere degli occhi: la raccolta degli articoli di François Truffaut
Prendo il mio kindle, mi collego allo store e inizio a vagare tra le proposte delle case editrici che preferisco. È così che mi imbatto ne Il piacere degli occhi (Minimum fax, traduzione di Melania Biancat), raccolta di scritti (articoli, profili di cineasti, prefazioni) di François Truffaut, regista di capolavori come I quattrocento colpi e Jules e Jim, esponente, suo malgrado, della nouvelle vague e redattore dei Cahiers du cinema. Non so se vi è capitato di vedere un suo film o di ascoltare qualcosa su di lui (anni fa questo racconto su Truffaut su rai radio tre mi rese felice). Qualunque sia il vostro grado di conoscenza o di interesse per Truffaut, questo libro è imperdibile. Non solo è un affresco dell’evoluzione del cinema francese e internazionale dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, ma anche la prova che questo regista, amatissimo, è stato pure uno scrittore, o meglio, è stato anzitutto uno scrittore. La sua vita da redattore e critico cinematografico precede di molte lune quella da regista. Quando all’alba degli Ottanta Truffaut si ammala di tumore l’impianto e il titolo di questa enciclopedia emozionale ci sono già. Il tocco finale è di Jean Narboni e Serge Toubiana che recuperano i pezzi da giornali e riviste. Oltre agli articoli (racconta di Godard, di Chaplin, di Bresson, della Bardot, di Rossellini, di Renoir, di Hitchoch), leggiamo le prefazioni per i libri di scrittori amici suoi, come Roché.
I suoi scritti coinvolgono, scomodano i grandi sistemi, ci guidano alla comprensione di un media dalle diverse declinazioni. Il cinema può, infatti, raccontare una storia. Eppure, non è nel racconto che si estrinseca la sua funzione. Il cinema può anche solo intrattenere o meravigliare. L’importante è che coinvolga. Che abbia una personalità. Che sia vero, che sia un atto d’amore. “Si discute spesso su come deve essere il contenuto di un film, se deve tendere al divertimento o informare il pubblico sui grandi problemi sociali del momento. Penso che tutte le individualità debbano esprimersi e che tutti i film siano utili, formalisti o realisti, barocchi o impegnati, drammatici o leggeri, moderni o antiquati, a colori o in bianco e nero, a 35 mm o in super 8, con attori famosi o sconosciuti, ambiziosi o modesti. Conta solo il risultato, cioè il bene che il regista fa a se stesso e il bene che fa agli altri” scrive Truffaut che si interroga sul senso del fare cinema e sulla funzione di un film.
Il legame di Truffaut col cinema risale alla preadolescenza. Truffaut non vive con i suoi genitori naturali, è scalmanato: l’unica cosa che lo avvince è il cinema, e la letteratura. Se non scappa al cinema, attratto dalle locandine, legge come un dannato. I semi della sua sensibilità (per Truffaut gli strumenti si possono acquisire, la sensibilità no) si spargono in questa fase. Il resto è un incontro col destino nei panni di André Bazin, fondatore della rivista cinematografica più importante d’Europa, che salva il giovane François dalle sue turbolenze emotive e lo accoglie nella redazione dei Cahiers du cinema, avvalorando quella tesi secondo la quale le fortune di taluni sono legate alla magnanimità di altri. Bazin diventa un amico, una specie di padre spirituale. Il giovane François, invece, si colloca presto nel cielo delle penne brillanti e competenti. Cresciuto a pane, strada, cinema e libri si esprime contro il cinema che lui dice “di papà” (manieristico, lontano dalla vita, dal sentimento) ed apre la strada ad una corrente nuova che strizza l’occhio al neorealismo italiano. La grazia, la poesia, l’ironia, l’amore per i libri di Truffaut saranno il marchio di fabbrica non solo dei suoi pezzi e dei suoi pensieri, ma anche dei suoi film. La voce di Truffaut ci giunge determinata, compatta: è l’artista che guarda il mondo attraverso una macchina da presa e non può fare a meno di comunicarlo.
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