Cinema

Il Permesso, 48 Ore Fuori – Amendola si dà al noir

13 Aprile 2017

Il Permesso lancia un piccolo spiraglio nel cinema italiano, oramai stanco, lento, sonnecchiante, in una parola: vecchio. Amendola (in veste di regista) si inserisce nel filone che ben gli si cuce addosso e, su sceneggiatura di De Cataldo (Romanzo Criminale, Suburra) dirige una crime story dalle tinte noir.

La trama prende piede da quattro carcerati di Civitavecchia che ottengono permesso per 48 ore di libera uscita, sulla sfondo di un’urbanità quotidiana di strade dissestate e palazzi lucenti. Già ciò genera quel senso di claustrofobia che impregnerà tutto il film: condensare la propria vita, vera, in due giorni è un’altra galera a suo modo, ma come si dice “meglio di niente”.

Le figure sono stampi classici per pellicole del genere: il padre criminale con il figlio  spacciatore; la ragazza ricca incompresa in vena di cazzate; il pischello che fa rapine con gli amici di sempre; il palestrato che mena gente per conto della malavita. Tutto gira attorno ad un immaginario definito e conosciuto ma sapientemente articolato nella storia, la quale arriva dritta allo spettatore permettendo di immedesimarsi nelle vite dei protagonisti, senza difficoltà.

Appare chiaro fin dalle prime scene che il criminale/padre redento veste bene Amendola (ora attore), gli è tagliato su misura. Il suo personaggio ci permette di parlare del tema cardine: il senso di appartenenza. Le quattro anime sono alla ricerca del loro personale senso, e c’è chi lo vede nella famiglia, chi nella donna amata, chi nel gruppo di amici e chi magari non lo ha mai avuto.

Facendo astrazione, il Permesso diventa una metafora sul significato che diamo alla libertà, scoprendo quella vera non è mai priva di agganci, di persone/luoghi che ci rappresentano. Libertà è scelta, scegliere come si vuole vivere. Il senso claustrofobico di cui prima è dato dalle prigioni mentali che ci costruiamo, le quali finiscono per condizionare in concreto l’esistenza, piegandola fino a vedere dinnanzi delle sbarre vere. Le situazioni in cui si muovono le storie sono un passato che ritorna, vecchie catene da cui è difficili liberarsi, e così 48 ore sono un sospiro nell’affogare.

Redenzione? Espiazione? Presenti, ma solo se si decide di tranciare direttamente col vecchio affrontando di testa i propri errori. La libertà della pellicola scorre come acqua di falda sotto le scarpe dei personaggi, pronta a zampillare, ma bisogna scavare, e questo ha un costo.

Dare un “senso maggiore al tutto”, una sicurezza capace di placare l’anima, di farti sentire a posto nonostante gli sbagli commessi, come se tutto quello accaduto avesse comunque una logica di fondo, è la componente autoriale. E senza eccessivi spoiler fa capolino quando meno te lo aspetti.

Tirando le fila, Il Permesso è un buon film con un buon cast, la storia procede e non risulta mai banale pur basandosi su figure tipiche dei crime, però non cosi distanti dalla realtà (De Cataldo ha preso spunto dall’esperienza di magistrato a Civitavecchia). La colonna sonora, mix di Good Man di Raphael Saadiq e temi morriconiani, si inserisce bene nelle scene, immortalate da una lucida fotografia (la scena di Amendola dentro il mattatoio fra le carcasse lo prova). Forse una regia più sporca (da Sollima per intenderci) e meno pulita avrebbe dato maggiore identità al film, senza perdere i lati positivi descritti.

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