Cinema
Il mio nome è Thrones, Game of Thrones: l’ultimo episodio tradisce la serie
Una delle prime cose che abbiamo imparato guardando Game of Thrones, fin dalle primissime stagioni, che si sviluppavano con ritmo lento e senza budget da record, era che non bisognava affezionarsi ai personaggi.
“Al gioco del trono o vinci o muori”, diceva Cersei, e infatti in quella serie di personaggi ne morivano continuamente, indipendentemente dal loro valore strategico e militare, dalla loro bontà d’animo o dall’affetto che gli spettatori avevano iniziato a provare per loro (vi ricordate Ned Stark?).
Le variabili in gioco nella guerra dei Sette Regni erano troppe e gli effetti non sempre calcolabili sul lungo termine, e personaggi mediocri potevano sopravvivere a figure ben più valenti. Quello che la serie metteva in chiaro da subito è che nella guerra per il trono, così come nella vita vera, l’happy ending non era affatto scontato, né garantito.
E poi, cosa poteva mai voler dire happy ending, in una serie dove fazioni deboli potevano all’improvviso diventare molto forti, a volte per inezie, e grandi favoriti potevano sparire altrettanto velocemente? Cosa vuol dire happy ending in una serie dove non c’erano dei veri e propri protagonisti, perché l’unico protagonista era il conflitto in sé, con tutta la sua imprevedibilità, la sua crudezza e la sua assenza di una scala di valori?
La grande forza di Game of Thrones, dunque, prima ancora che nei costumi, nelle scenografie, nella fotografia (tutti aspetti ben curati) era la sceneggiatura, che con la sua trama di equilibri politici, pulsioni personali, passioni e, talvolta, atti di bontà gratuita, la rendeva assolutamente unica nel suo genere.
Pur negli ovvi cambiamenti, la forza della sceneggiatura, dei suoi continui quanto imprevedibili cambi di equilibri e di personaggi, è rimasta più o meno inalterata nelle varie stagioni.
Proprio per questo motivo, non si può non considerare il terzo episodio dell’ottava stagione come un tradimento a tutto ciò che è stata la serie finora. Di quell’episodio si è detto e scritto molto, si è criticato o osannato tutto, ma forse, tra le varie obiezioni e i commenti entusiasti non si è detto ciò che andrebbe affermato in tutta la chiarezza possibile: Game of Thrones, in appena 82 minuti, ha sconfessato sé stessa.
Tra personaggi primari che sembrano sempre morire e poi vengono salvati, tra speranze perse e poi all’improvviso riacquistate, fino al finale in cui tutto sembra perduto e invece all’improvviso tutto è recuperato, l’episodio La Lunga Notte sembra costruito come un action movie, dove i cattivi sembrano sempre fortissimi, ma alla fine vincono i buoni, e lo spettatore tira un sospiro di sollievo, si rassicura e si sente felice mentre scorrono i titoli di coda.
La battaglia con gli Estranei è attesa da innumerevoli stagioni (gli Estranei sono persino nella prima scena del primissimo episodio) eppure è liquidata in un solo episodio, per giunta con un colpo di scena del tutto immotivato (Arya Stark che sbuca fuori da chissà dove è un modo pigro per risolvere l’episodio sul punto critico) e che rende, per tanti versi, tutta la battaglia inutile e fine a sé stessa (e che battaglia, poi: dove mai si è visto che un esercito che difende da un castello decida di schierarsi fuori da esso, perdendo un enorme vantaggio difensivo che risolverebbe il problema, citato in molti episodi precedenti, della minoranza numerica? E dove mai si è vista la cavalleria messa in testa e lanciata alla carica alla cieca?). Non viene approfondita la storia degli Estranei, che quindi sembrano sempre più ingabbiati nel ruolo di cattivi canonici, che combattono i buoni per nessun motivo specifico se non quello, appunto, di voler fare i cattivi, proprio in una serie che ci aveva insegnato che buoni e cattivi erano ruoli molto meno rigidi di come siamo abituati a considerarli.
Game of Thrones, dunque, smantella con un solo episodio tutte le intuizioni e i presupposti su cui era costruito, e serve a poco dire, come si fa da alcune parti, che senza la base dei libri la sceneggiatura doveva peggiorare per forza: non è scritto da nessuna parte che una trasposizione su schermo di un libro debba per forza essere peggiore del testo, e non è detto che se il testo viene a mancare debbano venir meno anche tutti i presupposti che hanno sostenuto lo sviluppo della storia rendendola così ben strutturata.
Gli sceneggiatori della puntata, del resto, sono David Benioff e D. B. Weiss, i due creatori della serie, non certo due nuovi arrivati, e il regista, Miguel Sapochnik, ha già diretto episodi in precedenza. È chiaro quindi che si tratta di una precisa scelta creativa, del tutto legittima ma, proprio per questo, criticabile.
Rimane, ovviamente, la qualità della realizzazione: nessuno può guardare La Lunga Notte, e il Trono di Spade in generale, senza riconoscere l’enorme qualità tecnica del tutto, dalle riprese agli effetti speciali, passando per la fotografia. Ma è una magra consolazione: chi ha amato Game of Thrones lo ha fatto prima di tutto per lo sviluppo della sua storia, più per la sua trama e sceneggiatura che per la qualità (eccelsa) della regia. Del resto, se avessimo voluto vedere una serie di effetti speciali ben fatti, preoccupandoci ma sapendo in realtà nel profondo che il bene era destinato a vincere con un colpo d’ala improvviso e liberatorio, invece che aspettare anni per l’ottava stagione, non avremmo fatto meglio a vedere uno 007?
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