Cinema
Il dolore, in generale
Selfie ovvero rappresentare se stessi. Immaginatevi di esser chiamati a raccontare voi stessi senza filtri. Senza interpretazioni. Una specie di camera-box e voi che ci parlate davanti. Ecco “Selfie” il documentario di Agostino Ferrente presentato al Festival di Berlino 2019.
Il rischio è evidente: perdere il controllo o lasciarlo a quell’altro io esterno che si sostituisce a noi quando qualcuno ci guarda, quando pensiamo che qualcuno osservando ci stia giudicando. Insomma, c’è un tema di verità, di verosimiglianza. Ferrente corre un rischio non da poco per un regista (massime un documentarista): non essere più in prima persona, con il suo controllo da remoto, lasciare lo sguardo terzo a un elemento esterno pur se presente al fatto. Far dire una storia, peraltro burrascosa, a due ragazzi che l’hanno vissuta senza filtri e senza strumenti per rielaborarla se non le lagrime e le smorfie che fanno le ragazze quando sanno di essere inquadrate. Insomma, prende un rischio. Agostino Ferrente è reduce da quel piccolo capolavoro di grazia benedetto dal successo che è “Le cose belle” (lì alla regia c’era con lui Giovanni Piperno). Un rischio che esorcizza con le telecamere di sicurezza che controllano fredde il rione immutabile. Immagini che mettono sull’avviso di qualche cosa che sta per succedere. O che forse è già successa. Irreparabilmente. Una sorta di presagio.
Siamo nell’estate 2018, a Napoli, Rione Traiano, nello stesso quartiere “difficile” in cui nel 2014 un ragazzo di sedici anni, per un tragico errore di persona durante un inseguimento di polizia viene colpito. Si chiamava Davide Bifolco. Ricordate? E ricordate quel che successe dopo? Una vera e propria sommossa popolare. Davide sognava il calcio professionista. In un posto come Napoli (già “Le cose belle” ci aveva messo in allarme) il sogno più impossibile finisce per diventare il più reale. Fatto salvo il rischio del cortocircuito delle “cose belle”. Quali sono le cose belle? Qui è l’amicizia, vissuta come esclusiva.
Quella di Alessandro e Pietro, sedicenni ora anche loro come Davide, anche loro del Rione Traiano. Uno barista, l’altro aspirante parrucchiere. Uno sovrappeso e trascurato (per una depressione, per dei dolori), l’altro attento alla linea e salutista (ma mai questa distanza è una separazione), uno palleggiatore infaticabile, l’altro che guida il motorino con una mano per tenere il vassoio delle consegne del bar con l’altra.
Alessandro e Pietro accettano la proposta di filmarsi con l’iPhone in un auto-racconto in “video-selfie” che li mette alla prova. Una prova che finisce per condannare Pietro alla fuga dalle riprese lasciando ad Alessandro il compito di finire il film lasciandolo allo spettro che tutte le estati hanno per dei ragazzi poveri di quartieri disagiati cittadini: non riuscire a fare vacanze e rimanere a sudare la propria solitudine da soli.
Leopardi è, in definitiva, il poeta spirito-guida del film. Raccontato fuori dai cliché scolastici – scuola che i due hanno d’altronde abbandonato a dire di quanto alle volte vita e formazione prendano vie diverse – per appropriarsi dell’unica vera poesia che quei versi parlanti da soli contengono senza interpretazioni iperletterarie. Fuori dal muro di Traiano, rione napoletano (bello e brutto come lo definiscono i due) è l’infinito – citato nel film con luminescenza – come il sabato del villaggio è forse l’agosto napoletano di Pietro e Alessandro, una quiete che anticipa il dolore, quello della morte di Davide e quello in generale. Il dolore, in generale.
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