Cinema

Essere e nulla – “Dolor y gloria” di Pedro Almodóvar

21 Maggio 2019

Su uno schermo in un piccolo teatro si proiettano le immagini di quelli che dovrebbero essere i ricordi, i rimpianti, le brevi avventure di un uomo. Il fatto è che non sono realmente i suoi, perché a farli riemergere è un attore, uno che interpreta un ruolo, uno che – anche se fa del teatro la sua vita – non può impossessarsi mai completamente della vita che sta mettendo in scena.

Eccola, dunque, la questione attorno a cui riflettere: siamo le vite che interpretiamo. Siamo i ruoli che ci vengono imposti. Come quello che deve recitare per tutta la sua esistenza Salvador Mallo, il protagonista di Dolor y gloria di Pedro Almodóvar.

Salvador è un regista che non trova più l’ispirazione ( di Fellini è nell’aria), inizia a fumare eroina e ricorda con nostalgia gli anni della sua infanzia. La sua parte è quella di un uomo che ha profondi sensi di colpa nei confronti della madre e cerca, attraverso l’arte, di sostenere le sofferenze facendo riemergere il rimosso. Ma il motore creativo, che sembrava acceso e indomabile negli anni della sua giovinezza, pare adesso purtroppo spento.

Lo sguardo di Almodóvar è concentrato nel dare spessore alla distinzione tra finzione e realtà. Per fare questo monta un sistema attorno al quale si possa avere la sensazione che ci sia una netta distanza tra quelle due dimensioni. Ma è tutto un inganno. Lo sguardo di Almodóvar è quello di Mallo, in tutto e per tutto. L’autore crea il suo personaggio che finisce per impossessarsi di lui, facendolo scomparire. Niente di nuovo, ma il processo narrativo con il quale lo spagnolo mette in piedi il racconto ha le forme ammalianti di una vite intrecciata.

Cinema della specularità, visione di un mondo che si divide in tanti piccoli frammenti con colori accesi e forme geometriche simili a quelle di una rappresentazione in digital art, schema perfetto attraverso cui, in un monologo quasi surreale, Salvador enuncia tutti i suoi infiniti dolori (non solo metaforici, ma anche fisici) e tutte le sue implacabili angosce.

E, nonostante tutto, l’altro esiste, ci accoglie, anche se noi lo rifiutiamo. Lo si trova nell’empatia suscitata da un canto intonato o nell’ascolto di una lezione ben impartita. E quella che ci salverà non sarà la parte più intima di noi – sembra dirci Almodóvar – ma quella esteriore che più, e continuamente, si trasforma. Quella parte adibita alle relazioni, astratta, vivace, più o meno sensibile e splendente a seconda di chi è costretta a incontrare. Divisa in due parti (come quelle appartenenti al corpo di Salvador, delimitate da una lunga cicatrice) ma sempre unica, come essere e nulla, dolore e gloria.

 

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