Cinema

E’ apparsa una Madonna: la “Troppa grazia” di Alba Rohrwacher

28 Novembre 2018

La “Troppa grazia” del nuovo film di Gianni Zanasi è quella sul volto di Alba Rohrvacher. In questa storia di contrasti e armonie, lei si chiama Lucia e dalle sue espressioni di labbra di occhi e di ciglia, la leggiadra clownerie femminile vestita di fiori e poix, promana tutta la grazia del titolo. Pur in abiti iconografici e nonostante occhi languidi mariani, la madonna israeliana interpretata da Hada Yaron – creduta da principio una barbona  – non irradia lo stesso inconsapevole candore di Lucia, geometra trentenne strapazzata dalla vita e dal lavoro a cui appare la Vergine nel mezzo di rilievi geo-tecnici.

Lucia, protagonista di questa commedia psicotropa esistenziale, è affiancata da un puntuale e calibrato Elio Germano ex-compagno allontanato da casa dopo una lite a tratti comica e a tratti caustica che segna l’andamento sinusoidale della pellicola; i due sono ben assortiti pur nella frattura di coppia che con l’andar del (secondo) tempo si ricompone in nuovo sistema affettivo.

E’ il racconto di un’apparizione divina che indurrà la protagonista a uno stato di prostrazione fisica e psichica e il suo ex compagno a far saltare in aria un cantiere appena avviato. Una grande esplosione alla fine accenderà la notte, aprendo tra le voragini fumanti un mondo di grotte e pozze sotterranee, un eden nascosto di sorgenti e stalattiti che scavando a fondo – pare dirci il regista –  possiamo trovare anche sotto l’arido del presente; un presente forse troppo stilizzato nel film da riferimenti poco incisivi ai temi della discriminazione, dell’oscurantismo culturale e dei social, e dei rapporti affettivi (bellicosi) tra adolescenti.

Nel cast anche Giuseppe Battiston (l’imprenditore edile cinico ma sensibile che arruola Lucia nel suo progetto) che aggiunge tono e spessore alla commedia, portandole in dote la personificazione del vizio classico della corruzione nell’opulenza triste della cosiddetta media imprenditoria.

Una storia che si muove tra commedia e fiaba, in un tempo che rincorre il sacro in direzioni sempre meno religiose e più etiche o comunque extra-religiose: nello studio di uno psichiatra ad esempio, nell’intimità di una coscienza scomposta, nel disagio mentale simulacro di una qualche identità. Il sacro è sempre associato alla follia; l’estasi così come la visionarietà sono state e sono ancora oggetto di discipline psicanalitiche e psichiatriche; in questo senso si può parlare di un film rivolto a una certa idea di follia, piuttosto mite e dolce, una questione di ritmo, un andamento sincopato della storia (e dei dialoghi che contiene), che porta lo spettatore dalla quiete tra morbide colline gialle, all’ansia di feroci colluttazioni tra Lucia e la Madonna, vittima la prima di una persecuzione davanti alla quale tutti sembrano solamente impensieriti.

La Madonna chiede a Lucia di arrestare i lavori edili sulla collina e là far costruire una chiesa. La chiesa non sorgerà, ma da quel sito collinare sgorgheranno improvvisi fiumi d’acqua a invadere un paese immerso in una quiete surreale, da cartolina nostrana, a simboleggiare forse l’assopimento indifferenziato dei piccoli centri.

Nel disagio psichico diffuso e integrato che osserviamo ovunque ci cada l’occhio, la follia non ci stupisce più, è una parola sbiadita o storpia che finisce per rassicurare o sviare questioni radicate nel modello sociale. E questa storia – altalenante e pure simbolica – porta in sé l’idea non così peregrina che una geometra di paese con figlia adolescente a carico e caos affettivo, priva di un sistema psichico strutturato e di solide difese razionali, possa normalmente impazzire al culmine dell’ennesimo corto circuito esistenziale, se per impazzimento intendessimo anche solo un esaurimento nervoso con derive allucinatorie. La Madonna che vede intimarle missioni con piglio sempre più violento fino a trasformare questa Maria in un’ossessione che schiaffeggia e tira per i capelli, questa apparizione coincide forse nelle intenzioni del regista con l’autolesionismo che ci porta a coltivare nell’orto elettrico dei giorni, ossessioni, nevrosi e ansie di varia matrice.

E’ una storia ben scritta e interpretata da bravi attori azzeccati, che tuttavia senza Alba Rohrwacher non avrebbe avuto lo stesso effetto in termini di grazia fiabesca e nervatura comica. Tutto sul viso di questa donna lascia immaginare che in certe giornate di forte aderenza alla vita, lei stessa possa contenere qualcosa di sacro o quantomeno di profondamente umano. E’ lo stesso Gianni Zanassi a dichiarare che solo con Alba Rohrwacher il film avrebbe potuto nascere. Chi se non lei avrebbe subito strangolamenti, schiaffi e tirate di capelli da parte di una – seppur fantastica – Maria di Nazareth, riuscendo a tener salda la recitazione sul crinale incerto tra stato di grazia e stato di follia? Il sacro contiene la follia, così come i luoghi del sacro sono la confusione, l’indifferenziato, la disperazione. Possiamo ritenere questa pellicola un’indagine a tratti ironica sul movimento di spirito, i moti e i ristagni d’animo, con lunghi minuti rarefatti fino alla dissolvenza e veloci sequenze dinamiche, a cavallo tra fiaba e cupa ordinarietà, capace di scaturire risate e subito dopo commozione, e poi riserbo.

 

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