Cinema

Druk, ubriachi fradici di gioia

7 Giugno 2021

 

What a life, what a night, what a beautiful beautiful ride – Scarlet Pleasure, What a life

 

E’ l’ubriachezza tutta danese che Thomas Vinterberg ci racconta con Druk, Oscar 2021 come miglior film in lingua straniera, oggi nelle sale italiane. Viene definita una dramedy, neologismo sincratico che ribassa al politicamente corretto, forzosa ricerca di una “via di mezzo” per definire in modo rassicurante un lavoro che invece è feroce, e stordisce come fa un’ubriacatura. Il crescente tasso alcolico della storia rende le riprese, la tecnica dei piani sequenza, il movimento, le musiche, tutto quanto alterato, drammaticamente, ma senza tragedia; un film sulla sbornia dello smarrimento, attraverso le diverse gradazioni alcoliche della vita.

Un invito baudelairiano al bere per la gioia, la ritrovata vitalità, la poesia, a qualunque costo, contro ogni convenzione e contenimento. Le stesse riprese minate dalla morte della figlia del regista in un incidente d’auto, hanno resistito all’urto di un dolore che immaginiamo atroce portando a termine un’opera catartica.

Parliamo di questo film sul bere pesante, il cui titolo originale è Druk che significa appunto “sbronzarsi energicamente”. Parte dal racconto di uno dei quattro protagonisti sull’improbabile teoria intestata allo psicanalista norvegese  Skårkerud sul deficit alcolico dell’uomo alla nascita; ha inizio così l’esperimento di quattro professori che si danno ad una metodica assunzione alcolica, confidando nei risultati positivi di un’ebbrezza (non) tenuta sotto controllo. Il film tratteggia all’inizio ombre pesanti addosso ai protagonisti, il dolore annidato nella pratica quotidiana delle vite trascinate a sera, per decollare poi verso le gioie precarie e pur intense del bere, che riescono comunque a riprodursi in un ciclo di bevute che immaginiamo interminabile, anche dopo i titoli di coda.

Esasperate dall’azzeramento del tono emotivo, con l’avvallo di una tradizione che in Danimarca non separa l’alcol dalla socialità fin dall’adolescenza, queste quattro vite da insegnanti iniziano con un prima timida bevuta, seguita da un’altra, poi un’altra ancora e così via, fino al collasso etilico, allo smarrimento dei corpi e delle coscienze. Perché “il super Io è solubile in alcol” come diceva con una nota citazione Cesare Musatti, precursore della psicoanalisi nostrana. Perché prima o poi, bevendo “smodatamente il giusto”, la coscienza molla la presa del cervello e finalmente ci libera da una buona parte di sofferenza. Giovani che organizzano gare di bevute attorno a un lago mentre i professori danno inizio al loro gioco alcolico strampalato solo, però nella fascia oraria diurna dei giorni feriali, contro il tedio digitale delle ore a scuola, tra una lezione di musica sacra e una ripasso della seconda guerra mondiale dove a un certo momento alcolico Churchill diventerà esempio di grande e valoroso bevitore.

Spicca tra i protagonisti Martin, professore di storia interpretato da Mads Mikkelsen, sempre elegante ed armonioso anche nel pieno della devastazione alcolica. Li vediamo prima in aula svogliati o delusi, ignorati dagli studenti, e poi in famiglia, con le mogli infelici, stanche e contrariate, i figli quasi inosservati, sullo sfondo di una tavola apparecchiata. Questo, prima che arrivi l’ebbrezza a stravolgere le loro vite.

Si ride anche certo, ma è il riso che sfugge davanti a un disastro annunciato e alle disconnessioni tra immagini suoni e colori, quando il gesto si fa ubriaco, al culmine di una tensione attoriale inimmaginabile, e la macchina da presa pur sfuocando enfatizza, segue e affianca le scene, traballando come il quinto ubriaco del gruppo; è poi il riso secco e acre di chi assiste allo sfacelo altrui e alla rivelazione impudica delle più taciute tra le convinzioni umane, quella secondo cui bere è eccitante, liberatorio e addirittura indispensabile per raggiungere una qualche gioia o un obiettivo critico. Così un fragile studente davanti all’esame di maturità viene incoraggiato a bere vodka spacciata per acqua prima e durante la prova di filosofia, e solo così la supera nonostante i suoi tremori. Ecco un esempio del politicamente scorretto del film, l’incitamento all’alcol da parte di un professore all’esaminando, un atto di coraggio intellettuale da parte del regista. D’altronde chi non si è mai fatto un paio di bicchieri prima di un appuntamento ansiogeno o insidioso per le conseguenze del suo insuccesso e per darsi coraggio? Un amico che non posso dimenticare affrontava i colloqui di lavoro – a volte il lavoro stesso – solo dopo aver bevuto almeno un paio di Ceres.

Un altro giro è il titolo scelto per le sale italiane. Ma che un altro giro! Druk, in danese è il verbo che il più esplicitamente possibile rimanda ai nostri gergali “ribaltarsi” “distruggersi” “strafarsi” dal bere, fino a non reggersi più in piedi, a vomitarsi e pisciarsi addosso, fino alla dissoluzione totale della coscienza, a quello stato comatoso che ha visto molti di noi portati a casa a braccia dagli amici se non da un’ambulanza.

Un film audace, politicamente scorretto, schietto miscuglio di alcolismo edonistico, pedagogia alternativa e amicizia rovinosa, mix di musica tradizionale danese, pop straziante e classica, un cocktail danese micidiale come metafora ed elemento narrativo di tutto il lavoro; un film per certi aspetti crudele, irridente, a tratti entusiasmante, ma anche tenero, sentimentale, sorretto purtroppo da un titolo italiano non all’altezza, da bevitori del sabato sera davvero poco convinti a distruggersi.

Dal tasso alcolico di 0,5 della bizzarra teoria norvegese, i quattro professori – attori storici del regista, volutamente scelti mesi prima di girare Druk –  in breve tempo sperimentano livelli di ebbrezza via via più intensi e molesti. Dall’inziale verifica di un sensibile miglioramento del tenore “delle relazioni sociali e lavorative” verso la deriva del gruppo di sperimentazione alcolica, la dissoluzione dei legami familiari, l’allontanamento dalla scuola di uno di loro per il ritrovamento di bottiglie scolate e nascoste nei magazzini; tumefazioni, nasi rotti, poi la caduta nello spettro del vizio quotidiano. E ancora oltre, fino alla morte per annegamento del professore di educazione fisica a bordo della sua barca a vela ubriaco, assieme all’inseparabile cane paralitico.

Non manca niente, si è toccato il fondo e ha inizio la catarsi. Siamo alle scene finali del film, col funerale del professore annegato, i volti cerei degli amici e dei colleghi, la desolazione illuminata dalla primavera danese, la presa di coscienza verso l’obbligata sobrietà.

La scuola termina con la tradizionale festa dei diplomati: branchi di giovani stipati ubriachi sopra rimorchi di camion adibiti al festeggiamento per le vie della città.

Nell’incanto primaverile di Copenhagen, il film si chiude nel tripudio di una nuova gioia alcolica, tra la folla festante dei giovani diplomati che incontrano i loro professori tra cui i tre reduci nuovamente graziati dall’alcol. Sulle note sarcastiche di What a life degli Scarlet Pleasure, la scena che esalta il film intero: Martin, il personaggio di Mikkelsen, ingolla una lunga sorsata di birra, si solleva dalla panchina su cui per un momento stava di nuovo cedendo allo sconforto, e si esibisce in un lungo ballo acrobatico che solo un ex danzatore professionista come lui poteva compiere, con ruota volante tra gli studenti che esultano, salti e piroette aeree, avvolto in un abito scuro da cerimonia e con lattina di birra in mano.

What a life diventa l’inno decadente che chiude la pellicola, nel fermo immagine di Martin ubriaco di una gioia dionisiaca che lo lancia a braccia aperte nelle acque della città. Ed è il trionfo dell’ebbrezza a restare sospeso, immortalato.

 

 

 

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