Cinema
Dogman, l’underdog che vince a Cannes
E’ lui, Marcello Fonte, il protagonista dell’ultimo film di Matteo Garrone. Da marginale del set, squatter affamato di recitazione e cestini, a divo del cinema internazionale nel volgere di una stagione. Se non è questa una favola italiana, sarà difficile credere ad altre.
Sta diventando una figura catartica questo attore capace di sollevarci un poco dalle maldicenze di una stampa europea sferzante che ci dipinge come scugnizzi furbi e scrocconi sul baratro del crack.
Come ai tempi della commedia all’italiana o dei fasti poetici del neorealismo, il cinema ci salva; restituisce al paese una popolarità tinta di indulgente paternalismo sul versante europeo e statunitense, per lo meno nei media citati dal Post.
Dogman conquista tutti grazie al suo protagonista Marcello Fonte, outsider autodidatta, underdog (pronostico perdente) di gran talento, premiato a Cannes per la migliore interpretazione maschile. Farà parlare di noi, di un’Italia fratturata e malinconica, dei suoi film, che la ritraggono nelle labili cornici d’autore, e della produzione cinematografica italiana che nell’ultimo decennio ha portato in scena con forza le fragilità del paese.
Fonte (Marcello anche nel film) è arrivato a Roma dalla Calabria a fine anni ’90 e si è arrangiato come ha potuto, fino a scoprirsi innamorato del cinema, al punto da intrufolarsi per anni dentro produzioni e schiere di comparse per godersi almeno le prebende dei famosi cestini. Fino a che un giorno Garrone l’ha notato e lo ha reso l’uomo dei cani, affiancato da Edoardo Pesce (l’antagonista) nei panni del giovane pugile che da lui verrà ucciso.
Alle domande sempre un po’ appiccicose di Massimo Gramellini che in tv lo stimola a raccontare qualcosa di lacrimevole, il nostro prende il sopravvento per dire che non crede al successo, al benessere, e nemmeno alla realtà in fondo. E’ un visionario di strada, un uomo che sogna asini viola, che comunica col padre defunto attraverso una propria visione incantata. Gli applausi scrosciano anche senza confidenze strappacuore sulla sua vita che, dice, continuerà uguale a prima.
“Secondo te Marcello (sottinteso: che vieni da una baraccopoli e oggi vinci a Cannes) cos’è il lusso?, gli domanda il conduttore. E lui: “Il lusso è quello degli altri”. Applausi, sorrisi, ma lui è un po’ a disagio, si prepara alla prossima domanda già scontata sull’“effetto applauso” della pioggia che batteva sulle lamiere della baracca in cui viveva (quale poi non si è capito).
Per fortuna c’è il cinema a raccontare al mondo da dove veniamo e dove verosimilmente ci stiamo trovando. Nelle periferie, lì sappiamo raccontarci bene. Nelle bigie atmosfere di un interland tra la città e il vuoto interiore; malcostruite, malilluminate, malvagie distese di bitume terra e cemento. Ma le storie che nascono lì sanno colpire, vincono il pregiudizio dei critici e i la mediocrità delle questioni all’italiana.
Dopo Gomorra, Non essere cattivo, Lo chiamavano Jeeg Robot, arriva con Dogman un altro racconto di vite sanguinanti, chiamate a lacerarsi nel conflitto tra bene e male che incarnano perché radicate nella miseria.
Al pari di Jeeg – ma senza effetti speciali – Dogman ha i contorni sfumati della fiaba. Tutto è ammantato di una vaga fuliggine, da una luce plumbea dove anche il sole stenta a riconoscersi nei pochi esterni diurni. Tutto produce un misto di sconsolatezza e sogno in un’opera che concede primi piani quasi esclusivamente al volto ieratico di Marcello, all’amata figlia e ai cani che lava, pettina e massaggia per tirare avanti. Cani comprimari sullo sfondo di un’umanità che li confonde con sé stessa, fedelmente alle ossessioni dei nostri tempi e al “palm-dog” vinto dal Chihuahua che ha “recitato” per Garrone.
Il plot è noto. Un omino dal volto antico e dalla dentatura forte, vive per i propri cani-clienti e per concedersi qualcosa in più spaccia dosi di cocaina in un quartiere desolato della cintura romana, stilizzato da una sala giochi, una gioielleria e un’osteria a cui corrispondono altrettanti icastici personaggi. Vessato da quello che per tanti versi è un amico critico e un cliente pericoloso, finirà per ucciderlo tra suture craniche sperimentali e uno strangolamento accidentale.
Tutto intorno cani che parlano, sfilano, sorridono; che assistono in ultimo alla morte del pugile da dietro le loro gabbie nel negozio di Marcello. E’ così che il cocainomane violento finirà strangolato al cospetto dei cani che, impassibili, osserveranno senza abbaiare.
In questa favola nera, l’attore supera il suo personaggio.
Marcello Fonte mette in luce qualcosa che va oltre il profilo scritto dagli autori, rivelando un’intima rassegnata dolcezza che certo gli è naturale al di là di tecnica e copione. Basta pensare all’imperfetta gestione del suo romanesco per credere a tutta la storia, quella del film e anche quella della vita dell’attore; non sono pochi i momenti in cui il suo accento calabrese fa breccia nonostante la romanità imperante nel film.
La pellicola è dichiaratamente ispirata al canaro della cronaca romana del 1988, tanto da aver risvegliato istinti censori nei confronti dell’autore, ma il tempo narrativo ci confonde tra riferimenti anni ’80 e scatti in avanti che citano l’euro o mostrano automobili contemporanee. Non è possibile stabilire dove e quando sia ambientata la storia; siamo dentro una fiaba dove la regola temporale è quella del “c’era una volta”, dove il bene e il male si confrontano e si compongono l’uno dell’altro nell’intreccio tra amicizia e sopraffazioni, tra amore e delinquenza, tra violenza di strada e quiete di fondali marini. Come in tante fiabe, nel finale il male viene sconfitto e a terminarlo è il piccolo Marcello combattuto tra colpevolezza e riscatto.
Il suo trofeo a fine lotta è il grosso cadavere dell’amico semibruciato tra gli sterpi. Marcello lo issa sulle spalle e cammina, davanti a una piazza deserta che non lo applaude, simbolo di destini finiti dai quali i due antagonisti fuggono senza scampo, uno scorrazzando in moto nel quartiere (nell’eco felliniana di Amarcord), l’altro dedicandosi all’amore per la figlia e per i cani.
Davanti c’è un mare fermo e muto, a contenere ogni solitudine.
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