Cinema

Diritto al viaggio e sensi di colpa

1 Luglio 2016

Rifletto spesso, ultimamente, sul senso di colpa del turista. E su come il suddetto turista – o almeno la sottospecie più consapevole – cerchi di superarlo definendosi “viaggiatore” e adottando una serie di comportamenti conseguenti.
Il sospetto che lo stratagemma non funzionasse già lo avevo, ma a togliermi ogni dubbio ci hanno pensato un paio di film visti in giugno all’ultima edizione di CinemAmbiente, il bel festival a tematica ambientale di Torino: Gringo Trails dell’americana Pegi Vail e Ghostland del tedesco Simon Stadler, due documentari in molti sensi complementari e speculari.

Pegi Vail, antropologa oltre che regista, porta sullo schermo un lungo viaggio da un a capo all’altro del pianeta, dalla Foresta Amazzonica al deserto africano fino alle spiagge della Thailandia, seguendo le rotte del turismo occidentale e il suo impatto su ambienti, popoli e culture. Attenzione però: il soggetto non è il vituperato turismo di massa degli albergoni e del “tutto compreso”, ma quello dei backpackers, che amano i concetti di viaggio solidale, ecoturismo, incontro con le culture locali e girano il mondo alla ricerca di quei paradisi incontaminati che già negli anni Cinquanta Levi Strauss dava per spacciati. I viaggiatori zaino in spalla pensano ingenuamente di essere osservatori invisibili, discreti, a basso impatto. Ovviamente non è così, e Gringo Trails riporta alcuni casi eclatanti di involontaria ma stravolgente contaminazione.

Come la storia di Yossi Ghinsberg, avventuriero israeliano che nel 1981 si perse nell’Amazzonia boliviana, vagò solo e disperato per settimane, fu miracolosamente salvato dalla gente del luogo e una decina di anni più tardi scrisse un libro – Jungle – che cambiò per sempre il destino di quella sperduta parte di mondo, trasformandola in poco tempo nella meta prediletta di migliaia di giovani desiderosi di rivivere quell’impossibile avventura. O come il caso di Costas Christ, oggi smaliziato reporter per il National Geographic, un tempo giovane viaggiatore in cerca di autenticità, che si trovò per caso a “scoprire”, alla fine degli anni Settanta, la paradisiaca isola di Ko Pha Ngan nel sud della Thailandia. Tre mesi di “laguna blu” in compagnia di un pescatore del luogo e poi le chiacchiere, sulla strada del ritorno, con due sconosciuti compagni di viaggio: quello fu l’inizio della fine. In breve la magnifica spiaggia vergine divenne prima il paradiso degli hippie, poi quello dei ravers, che oggi affollano a migliaia gli ormai celeberrimi Full Moon Party (la notte del 31 dicembre 1999 erano addirittura in 15mila!) e hanno reso l’isola una gettonata meta turistica con grossi problemi di sostenibilità ambientale.

gringo trails viaggio

Contrariamente a quanto si crede, dunque, il viaggio low cost non va sempre d’accordo con la sostenibilità. “Il miglior modo per fare eco-turismo sarebbe starsene a casa”, mi disse una volta un viaggiatore di professione. C’è poco da fare, insomma: al senso di colpa non si sfugge. Per quanto frugale e rispettoso, chi viaggia contamina, e in tanti modi, spesso imprevedibili: non solo l’ambiente, ma anche la cultura, i sistemi sociali, gli assetti economici. E allora c’è chi sceglie di correre ai ripari. È il caso del Bhutan, piccolo singolare stato himalayano dove il benessere si misura in Felicità Interna Lorda e i valori spirituali e ambientali vengono prima del profitto. Chi non vorrebbe visitare quest’isola felice sul tetto del mondo? Be’, per farlo, ammesso che riusciate a superare la selezione per il visto, dovrete sborsare un bel po’ di soldi (circa 250 dollari al giorno), perché il governo bhutanese e il suo Re Drago, per proteggere il proprio patrimonio culturale e naturale, hanno deciso di puntare sull’elitarismo. “Concediamo il visto, di preferenza, a insegnanti in pensione o star di Hollywood”, ammette candidamente uno dei membri della famiglia reale. Poco democratico, ma funzionale.

Del resto, è lo stesso diritto al viaggio ad essere poco democratico. Se la sottoscritta – come molti altri – il Bhutan se lo sogna, e si sogna pure i fiordi della Norvegia o il coast to coast negli Stati Uniti, può però permettersi di andare in giro per mezza India cenando al ristorante coi soldi di un caffè, cosa che nessun cittadino medio indiano (e neanche la sottoscritta, a dire la verità) potrebbe permettersi in Italia.
Sul diritto al viaggio e sulla sua (mancata) reciprocità fa riflettere Ghostland, ironico ritratto dall’interno di una piccola comunità di Boscimani della Namibia settentrionale. Gli Ju/’Hoansi (dove la grafia /’ sta per un impossibile schiocco di lingua e di palato) vivono alle prese con l’incombere di una modernità che non hanno scelto e con un assurdo divieto di caccia che li ha resi dipendenti dal denaro. Fra le loro fonti di sussistenza, i turisti occidentali occupano un posto di rilievo. Così, quotidianamente, gli Ju/’Hoansi si mettono in scena con le proprie abitudini e tradizioni, non senza chiedersi quali siano quelle dei loro visitatori e come sia il mondo da cui provengono. Finché un giorno l’antropologo tedesco che vive con loro decide di portare con sé, in Europa, quattro membri della tribù come insegnanti in un workshop universitario. Gli Ju/’Hoansi, da “visitati”, diventano così “visitatori”, da attrazione turistica si trasformano in turisti nella “terra de fantasmi” (i bianchi, per l’appunto).

ghostland viaggio

La dinamica, è vero, è quella non nuova del rovesciamento dello sguardo, de “gli altri siamo noi”. Ma il film di Stadler, accostato a quello di Pegi Vail, sottolinea una volta di più come il viaggiare, più che un diritto ormai dato per scontato, sia un privilegio da cui derivano grandi responsabilità. L’incontro con l’altro è, in sé, una grande responsabilità.
“Si viaggia prima per perdersi, poi per trovare se stessi”, osserva Pico Iyer, autore di bestseller sulla cultura del viaggio. Ed è vero, la costruzione del sé avviene attraverso l’incontro con l’altro: più lontana è l’alterità, maggiore sarà la comprensione della propria specificità. Ma la ricerca ha quasi sempre un punto di vista egoistico, una direzione univoca: sono io, turista/viaggiatrice come i tanti descritti in Gringo Trails, che scopro, incontro, faccio esperienza di un luogo, mi immergo nei suoi colori, nelle sue tradizioni, nella sua cultura, sono io che “entro in contatto” con la sua gente. Eppure io stessa, con i miei colori, le mie curiosità, il mio chiasso occidentale, sono un viaggio per coloro che visito, o almeno l’embrione di un viaggio, l’inizio di un desiderio.

Il bello di Ghostland è che dà ai Boscimani la possibilità di sviluppare quell’embrione, di dar seguito a quel desiderio solo intravisto. Romanticamente, si tende a considerare le comunità tribali come delicati ecosistemi da proteggere dalle influenze della modernità: vestigia viventi di un passato incorrotto, musei umani di un’età dell’innocenza perduta. Sarebbe forse bene ricordarsi che si tratta semplicemente di individui che vivono, come tutti, in un mondo globalizzato. Come nel caso dei Boscimani della Namibia, la modernità li circonda, li incalza e li coglie impreparati: il fatto che non la conoscano non è questione di scelta, ma di mancanza di scelta. Senza paternalismi, il progetto Ghostland gli regala allora il diritto di farsi contaminare.

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