Cinema
Da ferita a feritoia: il senso delle lacrime
Caro Cigno Nero,
Il dolore e la sofferenza sembrano componenti essenziali del nostro esistere, come le “risposte” di ciascuno di noi a pochi o molti eventi tristi, se non angosciosi. Per non parlare, poi, a proposito di malessere psicofisico, dello stress, diffusissimo ai nostri giorni e argomento di discussione a tutti i livelli, spesso con facili e pratiche soluzioni, come per esempio integratori di ogni specie, quasi sempre autoprescritti. Ma di facile e “pratico”, per uscire da una condizione dolorosa, c’è ben poco, tranne le lacrime, che tuttavia procurano un sollievo solo momentaneo. Non a caso il neurologo Piero Barbanti, nel suo decalogo per la prevenzione dello stress, colloca al primo posto l’autoconsapevolezza e al decimo la cultura. Questi due obiettivi, che ricorrono frequentemente nel pensiero dei filosofi, possono aiutarci a far sì che le “ferite” diventino FERITOIE, squarci attraverso cui far entrare anche la speranza?
Mauro
Caro Mauro,
Il dolore è una condizione senza tempo, e non solo perché appartiene ad ogni epoca e ad ogni fascia di età, ma anche per via del fatto che nella sofferenza siamo sospesi. Ancorati al presente senza viverlo – un presente che non è più fatto di momenti che si succedono, ma è immobile nell’assenza di progettualità – ogni cosa ci appare lontana e indefinita. Persino il passato, che non può che appartenerci, ci diventa estraneo, perché non ci riconosciamo più in ciò che eravamo prima che il dolore ci investisse col suo urto silenzioso.
Niente, più del dolore, ci spinge dentro di noi, facendoci rivolgere lo sguardo al nostro interno. Lo sapeva bene Schelling, che ha visto nella tragicità dell’inevitabile sofferenza umana “una segreta e meravigliosa capacità di tornare, a fronte dell’oscillazione del tempo, al nostro io più interiore, spogliato di tutto ciò che sopraggiunge dall’esterno”. È come se il dolore ci privasse in qualche modo dei sensi, della possibilità di orientarci nel mondo: il nostro sguardo non si posa più su nulla, perdiamo il gusto delle cose, gli odori smettono di essere evocativi (se non di altro dolore), il suono ovattato delle parole non riesce a raggiungerci. Allo stesso tempo, però, il dolore può generare una consapevolezza interiore, e, grazie alla nostalgia che lo accompagna, mostrarci il ricordo di ciò che è nascosto in noi: il desiderio di essere oltre lo spazio, il tempo e tutto ciò che conosciamo.
Una particolare dimensione della sofferenza, portata ai suoi livelli più estremi, ce la mostra Dalton Trumbo in E Johnny prese il fucile, libro prima e film poi, in cui viene raccontata la storia di un ragazzo, colpito da una granata in guerra che, nell’ospedale militare dove viene portato, prende coscienza pian piano di essere ridotto ad un tronco umano, avendo perso gli arti superiori e inferiori, la voce, la vista e l’udito. Impossibilitato a comunicare col mondo esterno, non può che rivolgersi al suo io. Finché non troverà, grazie ad una infermiera particolarmente empatica, la strada per quel dolore nel tatto, come delicatezza, ma anche come “ultimo senso”. L’infermiera e il ragazzo impareranno a comunicare attraverso la pelle: le dita di lei tracceranno sul petto di lui le parole di un dolore senza voce e senza segni di sé.
Per quanto privata, quindi, la sofferenza resta sempre visibile, e le lacrime, a cui fai riferimento, ne sono il segno più inequivocabile. Segno, e non espressione, come precisa Roland Barthes, per il quale piangere è un modo di provare a noi stessi che il nostro dolore non è un’illusione, ma il nostro interlocutore.
Una singolare storia delle lacrime (e dello stress che può accompagnare una profonda sofferenza) la troviamo nel film Crollo nervoso di Hitchcock, dove un uomo d’affari senza scrupoli e sostenitore dell’inutilità del pianto, rimane paralizzato in seguito ad un incidente d’auto. Da quel momento in poi assistiamo, (come nel film di Trumbo), al dialogo interiore, con la differenza che in questo caso, il protagonista può vedere e sentire. L’unica cosa che non sente è il dolore fisico. Creduto morto per via dell’insolita situazione in cui si trova, viene portato all’obitorio. Qui, vedendosi ormai perduto, senza quasi rendersene conto, si lascia andare al pianto. Sarà proprio quell’unico segno visibile del suo dolore a salvargli la vita.
Le lacrime insomma possono essere un lieto fine, anche quando non sono lacrime di gioia.
Ma devono poterci insegnare qualcosa su di noi, e questo può accadere solo se lasciamo che il dolore ci attraversi, dopo aver rotto col suo violento urto quell’involucro interiore in cui ci sentivamo custoditi. Nessun decalogo, soluzione pratica o rimedio fai da te può sostituirsi al tempo necessario che la sofferenza richiede, un tempo interiore. L’autoconsapevolezza e la cultura, intesa come conoscenza, non possono che originare da quello squarcio nel nostro involucro, una ferita che è affaccio sulla profondità della vita e che è destinata a diventare cicatrice, se è vero, come dice Dostoevskij, che il soffrire passa ma l’aver sofferto non passa mai.
Le cicatrici sono segni sulla nostra pelle, che è il confine tra il dentro e il fuori. Le feritoie, aperture nelle fortificazioni per difendersi dal nemico, sono anche fonti di luce e di aria in ambienti chiusi. Una ferita che diventa feritoia resta aperta: ma per respingere il dolore come nemico? O per facilitare, grazie a luce e aria, la cicatrizzazione?
Maria Luisa Petruccelli
Per scrivere al Cigno Nero: lapostadelcignonero@gmail.com
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