Cinema
Culi, sari e la svolta pop-polemica del multiculturalismo
Mentre l’Italia annaspa nel non voler riconoscere l’evidenza di un multiculturalismo che è già un (doveroso) dato di fatto, negli Stati Uniti e nella comunità globale dei social il dibattito su diritti ed eredità culturali è decisamente oltre.
Tutto comincia sul red carpet di Cannes, da cui un’ingenua Blake Lively, protagonista dell’ultimo film di Woody Allen, posta su Instagram una sua coppia di foto fronte-retro. Vaporosissimi capelli e un derrière un po’ abbondante (l’attrice è incinta al quinto mese), accompagnati dalla frase: «Una faccia da Los Angeles con un culo da Oakland». Apriti cielo. Ma prima un passo indietro: «LA face with an Oakland bootie» è una strofa di Baby got back, hit del 1992 di tale Sir Mix A Lot che è rimasta ben impressa nella cultura pop anglosassone, e che è un divertito omaggio ai sederi più corposi ma soprattutto, e questo è il punto, ai sederi afroamericani. Il rap in questione, per inciso, veniva citato anche in una puntata della (bianchissima) sit come Friends, come unica e improbabilissima canzone che riusciva a far ridere la neonata dei protagonisti. Insomma un patrimonio “culturale” trasversale e collettivo, si potrebbe dire. E invece no.
Da giorni la bella Blake è sotto accusa per il suo riferimento, giudicato irrispettoso da molti. La questione è sempre quella. Noi possiamo fare autoironia, voi non potete fare ironia, laddove noi è una minoranza a caso e voi la maggioranza di potere. Non è ovviamente un assunto privo di senso, tutt’altro. Resta però un dubbio: parlare di sederi giganti, oltretutto facendo riferimento al proprio, è offensivo verso una categoria etno-culturale? Dicono di sì numerosissimi tweet e diversi blogger, come JE Reich del sito Jezebel, secondo cui il succo del commento dell’attrice è che LA rappresenta la bellezza canonica (bianca) e Oakland il suo opposto (nero). Dice di no Sir Mix A Lot in persona, che alla fine si è sentito in dovere di intervenire e ha spiegato che quella canzone, scritta negli anni ’90 dello stile heroin-chic, delle modelle chiarissime e filiformi e delle afro-americane che in tv venivano rappresentate soprattutto come cameriere cicciotte, era sì una rivendicazione delle bellezze “altre”, una rivolta estetica e una sottrazione al modello estetico dominante e, ça va sans dire, bianco. Ma il rapper ha anche detto che se ora una donna bianca, bellissima e fasciata in abito attillato, ne cita una strofa, è precisamente perché quel modello è stato non solo accettato ma assimilato e ritenuto normale, non “argomento sensibile”.
C’è poi da dire che su Instagram altre due pop star non afro-americane – Katy Perry e Khloe Kardashian – avevano negli ultimi anni usato la strofa incriminata, e senza suscitare controversie. Il punto forse è che sia Perry che Kardashian sono more, carnose e non tipicamente wasp. Invece Blake Lively incarna lo stereotipo della candida regina: altissima, biondissima, oltretutto diventata celebre per il ruolo di una principessa dell’Upper East Side nel serial tv Gossip Girl. Lively aveva già fatto sollevare qualche sopracciglio lanciando (e poi cancellando) un sito di moda dedicato all’estetica della “Southern belle” (le fanciulle altolocate del Sud pre guerra civile), e decidendo – non proprio elegantemente – di sposarsi in una piantagione. E se quella del matrimonio è stata una scelta discutibile (benché, tristemente, di moda al momento), che secondo alcuni ha rafforzato la sua fama di “passivamente razzista”, è anche vero che c’è chi ormai quando si tratta di lei se la prende per esternazioni innocue. Come quella del marito Ryan Raynaolds, che l’ha definita la Beyonce dei red carpet. E non certo per il derrière, ma per la presenza scenica.
E a proposito di Beyonce, nemmeno lei è immune alla diatriba sulle appartenenze culturali e il diritto di citazione. Come mostrava un esilarante video del Saturday Night Live, sembra che solo quest’anno gli Usa abbiano scoperto che la ex frontwoman delle Destiny’s Child sia nera. Precisamente dalla sua famosa esibizione al superbowl e dalle ultime hit del suo nuovo album, Lemonade, pieno di riferimenti alla schiavitù, alle rivendicazioni etniche, a Malcom X. Abbastanza raro nel mondo del pop. Ed ecco che se c’è subito chi se ne appropria e afferma che solamente gli afro-americani, e soprattutto le afro-americane, possono apprezzare Lemonade, d’altra parte l’apparizione di una Beyonce in sari nel video dei Coldplay Hymn for the week end ha, secondo altri, offeso un’altra minoranza etno-culturale, quella indiana. Veli variopinti, gioielli sul viso e decorazioni all’henne sulla pelle di una pop star african-american? Appropriazione culturale, secondo diversi commentatori. Per non parlare del biondo Chris Martin ricoperto delle polveri cromatiche del festival Holi, che ormai spopola anche in Italia. Insomma fra video, social e red carpet, il multiculturalismo può diventare materia spinosa di rivendicazioni anche nel pop. E senza dimenticare mai che tanto le parole, quanto i simboli sono importanti, a volte occorre ricordarsi anche che stiamo parlando di pezzi di stoffa e di sederi. E che a volte – non sempre ma a volte – sono solo canzonette.
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