Cinema

Ci hanno fatto i film

19 Settembre 2021

Quando Dino Risi, nel 1962 realizza Il Sorpasso, oltre a segnare il successo di Vittorio Gassman, marca e segna un carattere nazionale.
Finiscono nel dimenticatoio “poveri, ma belli”, o l’Italia che si arrangia; tramontano i soluti ignoti, e invece trionfa lo strafottente che si sente capace di conquistare il mondo perché il suo stile di vita si propone (ambiguamente) come rottura dei parametri del codice comportamentale e mentale dell’Italia tradizionale.

Il Sorpasso è prima di tutto questo e in due pagine Giovanni De Luna lo coglie con una precisione tagliente. Al centro di quel film stanno le parole, le gestualità, le mani, l’espressione del viso, il sorriso, lo sberleffo, la sbruffaggine ma anche il conflitto rappresentato dai due protagonisti (oltre a Gassmann un fantastico Jean Louis Trintignant).

Il Sorpasso fotografa, la realtà in costruzione, la organizza, per certi aspetti la sistematizza. Dopo il film quel linguaggio diviene riconoscibile. Ovvero diventa codice culturale capace di parlare da solo.

In quel caso il film, come un saggio di indagine storica, non solo è stato capace di indagare e costruire un’immagine della realtà. Ha fatto molto di più: ha aiutato a comprendere le forme culturali della realtà sociale.

Non è la prima volta che accade nel cinema e la forza di Cinema Italia (Utet) di Giovanni De Luna è quella soprattutto di metterci davanti a molti capitoli che segnano un diverso modo di seguire, capire e, alla fine, consente di vedere la storia degli italiani in un lento processo che non è lineare, che prevede salti, trasformazioni, metamorfosi, ma che appunto la scatola cinematografica se all’inizio accompagna poi ha invece l’effetto di definire e produrre.

Capiterà molte altre volte nella storia del cinema italiano, sottolinea De Luna. Capita con i film dei “telefoni bianchi”; con i film della cinematografia fascista, ma anche con le ricostruzioni del mondo antico, in cui non è importante quanta realtà storica venga riprodotta, ma come l’occhio dello spettatore interpreti, entri e alla fine si identifichi con i personaggi che quel film mette in scena (uno per tutti Cabiria dove il tema è come l’italiano del 1914 immagina l’Africa che ha appena incontrato nella guerra per la Libia appena conclusa (1911-1912) che cosa sia il concetto di civiltà incarnato dal protagonista del film u un libretto d0’aitore firmato Gabriele D’Annunzio.

E capiterà di nuovo con gli anni’70 (per esempio: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), con gli anni del riflusso e la resa dei conti degli anni dei movimenti (Maledetti vi amerò), e che si accentua, soprattutto, con la stagione dei bilanci in cui è un’intera generazione a ripensare sé stessa e a guardarsi nello scenario italiano.

Da questo punto di vista tanto il capitolo dedicato al viaggio nelle emozioni e poi nella psicologia che caratterizza lo scavo di Noi credevamo consentono di comprendere il quadro aggrovigliato dei sentimenti dell’italiano nel passaggio tra Prima e Seconda repubblica fino alle soglie della crisi anche della Seconda repubblica.

Ma soprattutto è La meglio gioventù, a definire quella stagione, nei due dialoghi che aprono e chiudono il film come non manca si sottolineare De Luna. Quello del professore al giovane protagonista che lo invita ad andarsene perché l’Italia è un paese che non cambierà (è il dialogo con cui con cui si apre il film) e il dialogo tra quel giovane ormai adulto e provato da molti passaggi pubblici e privati che non accoglie la frase consolatoria dell’indiziato per reati di corruzione  che ributta su una sua non responsabilità la sua condizione a cui il protagonista  risponde che la vita se è certamente “circostanze date” in cui ci si trova ad operare, poi è anche scelta, ovvero accettazione o rifiuto delle regole, soprattutto di quelle che sono vizi, di fronte alle quali ciascuno è chiamato ad accogliere, a condividere o a cercare di modificare anche e soprattutto con il proprio comportamento. Appunto con le proprie scelte.

Il che ripropone non solo un tema, ma anche la capacità di usare fonti non traduzionali per studiare, scavare e ricostruire lo scenario della storia. Il cinema afferma De Luna è uno strumento, ma, appunto, a patto che non lo si usi solo come documento, ma anche come struttura narrativa, come costruzione.

Da questo lato, la proposta di De Luna, portando avanti un ra rifkessione aperta molti anni fa con L’occhio e l’orecchio dello storico, un libro ormai introvabile ma da cui poi son nate molte cose, e poi con   La passione e la ragione)  non è solo quali documenti usare, ma anche quale ricerca storica proporre, utilizzando il cinema come fonte.

Il cinema entra nella ricerca storiografica a partire dagli anni ’70.

A introdurlo è stato lo storico Marc Ferro che propone di indagarlo come documento, ovvero per gli elementi (espliciti e o sotterranei) che contiene.

Giovanni De Luna propone di leggere I film non solo per ciò che contengono, ma per i sentimenti, le ansie, le visioni, che ci riversano e ci ritrovano sia chi sta dietro la macchina da presa, sia gli attori che interpretano i ruoli e i caratteri, sia gli spettatori che riempiono le sale cinematografiche per vedere una cosa in cui continuamente ritrovano se stessi anche quando la scena proposta riguarda un altro tempo, un altro contesto, un diverso paese.

E se lo spettatore è ancora inconsapevole, quelle componenti che apparentemente gli arrivano attraverso un prodotto da con cui possono prendere le distanze, diventano luoghi ineludibili con cui confrontarsi e misurarsi Non per migliorarsi, ma per conoscersi.

Cinema Italia è un libro che racconta come i film “hanno fatto gli italiani”, come hanno anticipato sentimenti, passioni, hanno consentito agli italiani in un tempo lungo un secolo di raccontare se stessi, riconoscersi, ritrovarsi e forse anche riuscire laicamente a prendere le misure della propria storia.

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