Cinema
Chiamami col tuo nome
“Chiamami col tuo nome” sembra un film sul desiderio e sulle sue insondabili strade.
Il desiderio si nutre di mancanza, ha bisogno di vuoti.
Elio adolescente pensoso, è colto, ama leggere, compone musica, suona il pianoforte divinamente, allieta le serate dei genitori con la sua arte soave, suona per loro, anche se non ne ha voglia.
Elio vive in una splendida villa del Seicento da qualche parte del Nord Italia, fa lunghe passeggiate in bicicletta, aspetta che finisca l’estate e poi che arrivi l’inverno.
Elio trascorre i suoi giorni tra sole, ombra, divani, nuotate.
Benessere, eleganza, cultura sono la cifra della sua esistenza: padre archeologo, madre raffinata.
Elio è circondato da un velo soft di dolce disattenzione per la sua crescita e per quelle incertezze capricciose che lo sviluppo comporta: se è triste si stende sui corpi accoglienti dei genitori, mentre sente tra i capelli la mano lieve della madre che lo accarezza e la sua voce vellutata che gli legge – traducendo all’impronta dal tedesco – racconti di cavalieri innamorati. Elio è un ragazzo, ma la sua vita è ferma a rituali da bambino.
Elio ha tutto, tranne quello di cui davvero ha bisogno: considerazione. Vivere in un’atmosfera di ostentato, narcisistico esercizio dell’eccellenza culturale di due genitori troppo presi da sé per accorgersi di un figlio che sta cambiando, blocca ad uno stato larvale chi si affaccia alla vita. Sapere che qualunque cosa sarà compresa, capita, concessa, non costituisce sempre un vantaggio; un permissivismo che vela la noncuranza, ostacola il conflitto generazionale e impedisce ogni tentativo di confronto, scontro: non c’è niente da dire, chiarire, chiedere. Tutto scorre in una silenziosa indifferenza.
E poi, all’improvviso, arriva Oliver, giovane dottorando in archeologia chiamato dal padre di Elio a studiare e schedare reperti.
Senza capire se è volontà o curiosità Elio, tra confusione, tentativi di repressione, vergogna e dubbi, alla fine ottiene da Oliver quello che forse ha sempre cercato: attenzione, interesse per la sua vita, ascolto, dialogo, divertimento, sorrisi, amore.
Il Nome, chiamarsi per nome, scambiarsi il nome: nel nome c’è tutta la considerazione che ad Elio è mancata, il riconoscimento di un Io che si è mosso tra solchi di anonimo benessere. La vita? La famiglia? Il futuro? Il senso? Ogni ground è imploso. “Chiamami col tuo nome” è un monito, Elio sembra dire a Oliver: “dai alla mia vita il sapore che le manca, l’essenza che non ha”. Del resto “adolescenza”, dal latino ad-olesco, vuol dire proprio “andare verso il proprio odore”, cioè verso la propria essenza.
Guadagnino ha ritratto nei genitori di Elio, il quadro di una generazione postsessantottina incapace di colmare il vuoto intorno a sé, forse nostalgica del passato che tiene in vita tra pose costruite e atteggiamenti studiati.
Guadagnino ha certificato un atto di accusa nei confronti di un certo tipo di famiglia, quella che dietro la falsa carta dell’amicizia si gioca la felicità dei figli.
Guadagnino dà vita a un personaggio-simbolo: Elio, il ragazzo dal nome parlante che significa sole, indica ciò che è splendente come il sole. Elio, l’adolescente malinconico impara a splendere, anche se tutto intorno trasuda grigiore.
Non importa quanta sofferenza la vita ci riserverà: nello splendore di un momento si condensa l’intensità che non sarà mai dimenticata.
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