Cinema

Canova (IULM): Italia, il più alto tasso di analfabetismo iconico dell’Occidente

29 Giugno 2021

Gianni Canova, conosciuto ai più come il “Cinemaniaco di Sky” si racconta. In questa lunga chiacchierata emergono tutte le sue doti da grande uomo di cultura, un osservatore straordinario della realtà, con una visione sempre proiettata al futuro. Un’intervista, in cui si racconta come Rettore dell’Università IULM, come professore, come giornalista, come scrittore, come autore, ma soprattutto come uomo capace di fare analisi profonde e mirate sul nostro Paese, il sistema politico e le conseguenze sulla cultura e la comunità. Senza peli sulla lingua, sempre coerente con le sue posizioni, non risparmiandosi in critiche e mostrando tutte le sue perplessità. Conclude con un pensiero per Milano, da lui definita “capitale morale del Paese.”

Ci siamo conosciuti negli anni in cui Duel diventava Duellanti, un progetto editoriale che per quasi 20 anni è stato icona per gli amanti del cinema, di quelli che vogliono gettare lo sguardo sempre un po’ più in là e allargare le proprie visioni, senza limiti. Qual è il ricordo che più ti porti dentro di tutta quell’esperienza e oggi cosa diresti al Gianni che nel 1993 decise di fondare Duel?

Facendo un bilancio della mia vita, penso che quell’idea, quell’intuizione, sia e resti una delle cose di cui vado più orgoglioso, soprattutto per un motivo, era un’iniziativa follemente indipendente. Esisteva la libertà di aggregazione di quattro, cinque ragazzi, perché tali eravamo, che amavano il cinema e che hanno deciso di affittare, a proprie spese, uno scantinato in Via Castel Morrone a Milano e di provare a fare una rivista, che usciva in edicola, senza aver dietro un editore, senza avere inserti pubblicitari, lavorando tutti gratis. L’esperienza è durata dal 1993 al 2013 venti anni di edicola, con punte che sono arrivate a sfiorare le 10.000 copie. Nella sua follia un’impresa editoriale unica nella storia del nostro Paese, guardata con sospetto da tutti quelli che si chiedevano da che parte stava Duel, con chi stava, simpatizzava con la destra o con la sinistra, se era anarchica, oppure no. Il bello era che non si capiva dove si collocava, perché al suo interno si respirava la libertà, la libertà di pensiero, la libertà di espressione, di giudizio e di critica e da lì, per questo ne sono particolarmente orgoglioso, è stata una fucina da cui sono uscite molte persone che adesso occupano posizioni epicali, faccio solamente tre nomi: Paola Maranga, ora responsabile internazionale di Rai Cinema, Carlo Chatrian direttore del Festival di Berlino, Giona Nazzaro, direttore del festival di Locarno, erano ragazzi più giovani di me.

Cosa c’è oggi in 8 1/2 di quella tua esperienza?

Nulla. E’ un esperienza completamente diversa, quella era una esperienza libera, sperimentale, estrema e radicale. Questa è un’esperienza istituzionale, dietro c’è Cinecittà e Istituto Luce, tutti coloro che scrivono sono retribuiti, io stesso percepisco un compenso per fare il direttore e la missione che 8 e 1/2 si è data, che io ho accettato, è quella di essere uno strumento di promozione del cinema italiano. Duel non aveva finalità di promuovere film, anzi a volte esprimeva valutazioni molto dure sul cinema italiano, 8 e 1/2 invece deve fare tutto il possibile per far conoscere, apprezzare, approfondire il cinema italiano, ha, se vogliamo, quasi una funzione pubblicitaria. Per quanto riguarda il mio ruolo, penso sia giusto così: dopo aver fatto le barricate con Duel ora è corretto, soprattutto in questi tempi difficili per il cinema in generale e per il cinema italiano in particolare, fare tutto il possibile per fare in modo che il pubblico lo conosca, lo apprezzi, per quello che merita.

Il cinema come filo conduttore di una figura poliedrica: storico del cinema, giornalista, autore di programmi per la TV, direttore artistico, scrittore di romanzi e di saggi, professore e Rettore dell’Università IULM. C’è un “vestito” con cui ti senti più a tuo agio e uno che ti sta un po’ più stretto?

A mio agio con nessuno, tant’è vero che li cambio continuamente, forse in maniera troppo bulimica e disordinata, ho la necessità di cambiare maschera continuamente perché in nessuna mi riconosco totalmente. Quella con cui mi sento più a disagio è quella di critico cinematografico, che oramai un po’ rinnego nel senso che, quando vedo alcuni amici e colleghi che fanno questo mestiere come se facessero i giudici della corte di Cassazione, emettendo sentenze inappellabili di vita e di morte, praticando la critica come se fosse una ghigliottina, io scappo a gambe levate, nulla mi fa più orrore in questa fase della mia vita che assistere ai ghigliottinatori di professione, quelli che sventolano i cappi e le galere. Il critico è colui che spesso dice: “questo è bello, questo è brutto”, pretendendo di attribuire un valore oggettivo e universale a quello che è un suo giudizio soggettivo e personale. Personalmente, da almeno dieci anni a questa parte, non ho mai più scritto di un film se è bello o è brutto, ma al massimo dico mi piace o non mi piace. Metto in campo un’esperienza soggettiva dispettatore, che prova a spiegare i propri gusti, ma senza mai avere la pretesa che ciò che piace a me debba piacere per forza anche agli altri. Per questo resto a disagio quando mi definisco un critico cinematografico e cerco proprio di non farlo più, tutto il resto fa parte di una continua ricerca incessante e anche di una volontà di mettersi alla prova provando più cose. Ti sei dimenticato che ho cominciato facendo la radio, ultimamente ho fatto anche qualche performance teatrale, ognuno di noi si diverte come può, a me piace divertirmi così.

E il prossimo che ti piacerebbe indossare?

Domanda difficile, non saprei. Sono stato un uomo fortunato, la vita mi ha sorriso, credo che, più o meno, mi abbia dato tutto quello che potevo desiderare. Prima di andarmene da questa terra vorrei scrivere ancora almeno un secondo romanzo e mettere insieme una raccolta di racconti, a cui peraltro sto già pensando. Queste sono le due cose che mi appagherebbero di più.

Quando è uscito il tuo romanzo thriller Palpebre hai affermato che l’idea nasceva dall’esigenza di trasferire in narrativa alcune ossessioni per le immagini che avevano segnato la tua vita, fino a quel momento. Sono passati 11 anni da quella pubblicazione e noi tutti viviamo sempre più circondati da immagini, si stima che solo su Instagram vengano pubblicate circa 60.000 foto al minuto. Penso soprattutto ai più giovani, da sempre abituati a questo prolificare, saranno in grado di sviluppare un senso critico dell’immagine? La scuola è pronta per fare questo passaggio?

La scuola purtroppo non è pronta, continuiamo ad essere il Paese con il più alto tasso di analfabetismo iconico di tutto l’occidente, benché ci siano stati negli ultimi anni alcune esperienze lodevoli di sperimentazione della didattica del cinema e degli audiovisivi e delle immagini, nella scuola però restano comunque delle esperienze abbastanza isolate, non c’è nessun intervento sistemico che affronti il problema. Gli italiani ad oggi sono i più analfabeti nelle due discipline più importanti per capire il mondo contemporaneo, cioè l’economia e l’iconografia, lo studio delle immagini e non è casuale. Un popolo di ignoranti e di sudditi si governa e si manipola meglio. Un popolo consapevole invece è dotato, quantomeno, degli strumenti minimi per capire che cos’è lo spred, che cos’è il Recovery Fund, cosa che gran parte degli italiani non sanno, così come non sanno che effetto ti produce un primo piano diversamente da quello che ti può produrre un campo lungo. Questa è stata la battaglia degli ultimi anni della mia vita. Palpebre dieci anni fa aveva questo di lungimirante, intuiva che il terreno delle immagini è un terreno di scontro politico grosso e rilevante, sempre più è necessario chiederci che cosa guardiamo quando osserviamo le immagini, sempre più è indispensabile chiedersi e porsi il tema di un’etica delle immagini.

Prendiamo ad esempio tutte le polemiche che ci sono state negli ultimi giorni sull’opportunità di pubblicare o meno il video della tragedia sulla funivia del Mottarone, quando è stata pubblicata è stata vista, visionata avidamente da milioni di telespettatori. Era proprio necessario pubblicarla? Non pubblicandola si andava contro alla libertà di espressione? E’ servita a qualcosa dal punto di vista delle indagini per l’attribuzione di eventuali responsabilità? No! Perché Mentana and company l’hanno pubblicato, se non per istigare una sorta di pornografia del dolore? Trovo che questo non sia etico di questi tempi. Se però dici queste cose vieni accusato di essere censore e di limitare la libertà. È vero che in noi umani è antropologicamente fondata la voglia di vedere il dolore degli altri, come quando in autostrada rallenti per vedere un incidente sulla corsia opposta. Cosa si spera di vedere, forse godiamo comunque del fatto che le disgrazie  capitino sempre agli altri. Questa avidità nel guardare la morte degli altri è un piccolo tentativo di rassicurarci, di pensare che questa volta non è capitato a noi.

Quanto ha influito sulle tue lezioni in Università?

Molto, io cerco sempre di mettere insieme un sapere storico critico consolidato con strumenti di lettura del mondo contemporaneo, credo che questo serva agli studenti per riuscire a capire meglio e a decodificare meglio il mondo in cui vivono. Da due anni al corso che tengo alla laurea magistrale tengo un corso sulla distopia, sull’immaginario distopico come grande categoria per le letture contemporanee. E’ incredibile leggere dei romanzi scritti anche cento anni fa come La peste scarlatta di Jack London e avere la consapevolezza di leggere la descrizione di ciò che sta accadendo adesso. L’arte e la straordinaria capacità di anticipare cose che poi accadono davvero, come se fosse la realtà che imita l’arte e non viceversa, questo offre strumenti critici molto utili agli studenti e ai giovani per orientarsi meglio nel mondo.

 

“L’unico vero realista è il visionario” hai citato questa frase di Fellini in una tua intervista. Cosa significa oggi essere visionari e chi sono i nuovi visionari (del cinema e non)?

Quella frase non solo l’ho citata, ma è stata scelta dai quattro curatori del MIAC, Museo Italiano Audiovisivo e Cinema di Roma di cui facevo parte. Prima dell’inaugurazione si trattava di scegliere una frase da scolpire sulla facciata dell’ingresso, ognuno di noi quattro era arrivato con qualche frase, dopo la discussione è stata scelta la frase da te ricordata e da me proposta. Ho la sensazione che il cinema italiano da molti anni sia un po’ prigioniero dell’egemonia e della dittatura del realismo, il cosiddetto cinema del reale che anche nobilmente racconta tra virgolette la realtà. Io amo di più il cinema che dice le bugie, il cinema che inventa il cinema, che se ne frega della realtà, come faceva Fellini, se aveva bisogno del mare usava dei teli di cellophane se aveva bisogno della neve usava il polistirolo, si vedeva che era finto, ma talmente finto da spingerti a credere che fosse vero. Visionario vuol dire avere il coraggio di rompere gli schemi a cui siamo soliti guardare il mondo e interpretarlo, rompere i luoghi comuni i pregiudizi e concepire l’arte o il cinema in questo caso, non come uno strumento di riproduzione del reale, ma come uno strumento di produzione di mondi che nella realtà non esistono, ma che ci aiutano a vedere meglio anche il mondo in cui viviamo.

Con il format “A lezione da” hai portato in Università,  oltre che su Sky, i più grandi registi e attori italiani, sicuramente saranno tantissimi gli aneddoti da raccontare, ce ne sarà però uno a cui sei più affezionato e perché?

Non ci conoscevamo ancora con Carlo Verdone, persona ansiosa e ipocondriaca. Quando è stato invitato, prima di accettare ha voluto incontrarmi a cena a Roma per conoscermi meglio per capire se poteva fidarsi di me. Dopo quella cena ci siamo conosciuti meglio e non sono mancate altre occasioni di incontro. L’arrivo in IULM è stato mitico. Arriva, folla di studenti nel piazzale dinanzi all’ingresso, lui avanza con passo spavaldo fino ad arrivare alle porte scorrevoli automatiche, purtroppo una di queste era guasta e non eravamo stati informati dalla sicurezza. La porta non si apre e il povero Verdone si schianta contro il vetro, cade e riporta un vistoso bernoccolo che gli terrà compagnia per tutta la lezione. Durante la lezione era poi prevista una sfida da lui stesso sollecitata che prevedeva di riporre in una scodella una trentina di pastiglie, di compresse, un aspirina, una tachipirina, un optalidon, etc… e lui, con estrema naturalezza, ne ha prelevate una decina, identificando perfettamente non solo il nome del farmaco ma anche la dose in esso contenuta. Una persona con una conoscenza farmacologica impressionante.

La tua stima spassionata per Checco Zalone non è un segreto. Da cosa nasce? Potrebbe essere uno dei fautori della democrazia culturale di cui parli in Ignorantocrazia?

Riconosco in lui un’intelligenza, un possesso dei tempi comici straordinario che pochi altri hanno, ritengo che abbia saputo rinnovare in modo eccellente la comicità italiana, ed è per questo che gli ho dedicato un piccolo libro. Aveva prima del Covid, la capacità di portare la gente al cinema, quando riesci a portare milioni e milioni di italiani in una settimana a vedere il tuo film, è un successo strepitoso di questi tempi. Questo perché ha rispetto per il pubblico, ha una comicità che non è mai moralistica, non è mai calata dall’alto, non è mai sentenziosa. È l’esatto opposto di Grillo; l’anti-Grillo è Checco Zalone. Grillo è saccente, moralista si eleva sopra il mondo e sputa le sue sentenze: questo è bello quello è brutto, ho ragione io, ho capito tutto solo io. Invece Zalone dice: non ho capito un cazzo. Checco dice: sono come voi un misero piccolo uomo, che cerca di sopravvivere come facciamo tutti e noi ridiamo di quello, delle piccole nostre miserie che condividiamo con lui, non ridiamo invece con uno che dall’alto ci dice cosa dobbiamo fare, perché lui solo lo ha capito e ci illumina con il suo verbo.

La pandemia ha tirato un altro colpo durissimo alla cultura, accelerando forse dei processi che erano già in atto, come la distribuzione e la fruizione di film sulle piattaforme online, quale futuro ci aspetta?

La pandemia ha tirato un altro colpo durissimo alla cultura… Uhm, direi sì e no. Ha accelerato un processo di cambiamento che era nell’aria, rispetto al quale c’è stata una forma di resistenz

a anche un po’ miope. Qualche altro settore ha patito veramente, ad esempio il teatro, la musica dal vivo, l’editoria no. Le vendite dei libri sono cresciute, il cinema ha avuto dei ristori molto succulenti, tanto è vero che io stesso ho sentito più di un esercente che ha scelto di non aprire, guadagnando di più, godendo dei ristori concessi, questo alla faccia dell’amore per il cinema. La pandemia ha fatto emergere anche alcune miopie, quando il cinema ha finalmente riaperto, mi sarei aspettato fuochi di artificio, invece abbiamo acceso solamente qualche candela qua e là.

Mi sarei aspettato che registi e attori si prodigassero con generosità andando in giro nelle sale per incentivare il ritorno del pubblico, magari organizzando eventi. Invece nulla. Soltanto quando si tratta di promuovere il proprio piccolo film, non capendo che ne va non del proprio film, ma del cinema in generale. Il processo del passaggio alle piattaforme era nell’aria, sicuramente è stato accelerato, chi crede che tutto torni come prima non ha capito nulla, è necessario andare verso una coabitazione in cui piattaforma e sale cinematografiche si nutrono e si fertilizzano insieme, devono smetterla di farsi la guerra, l’uscita di Nomadland, il film che ha vinto l’Oscar, era contemporaneamente in piattaforma e in sala e ha incassato più di qualsiasi altro film pur essendo fruibile anche sulla piattaforma. Esistono purtroppo piccole rendite di posizione dei distributori, degli esercenti che lavorano ciascuno per il proprio piccolo orticello invece che lavorare per il latifondo nel suo complesso. Arriveranno una marea di soldi sul cinema, trecento milioni solamente per sostenere nuove produzioni, credo che tutto questo debba spingere il Governo, i Ministri, gli operatori economici a capire che non serve produrre un numero maggiore di film, se non si interviene anche sulla distribuzione e sul consumo, che sono le due filiere più deboli che vanno sostenute. E’ necessario portare il pubblico nelle sale, se non si farà nulla per questo ma si continuerà ad investire su nuovi film, il risultato sarà un buco nell’acqua. Tra gli esercenti ci sono stati pochi esempi virtuosi, se non ricordo male i cinema hanno iniziato a riaprire alla fine del mese di aprile e ancora oggi siamo solamente al 50% delle sale riaperte, le altre aspettano i grandi film e godono dei ristori. Il grande vizio anche in questo caso è l’assistenzialismo, che uccide l’intraprendenza, la fantasia, la necessità di inventarti iniziative, come ha fatto il cinema Beltrade a Milano aprendo alle sei della mattina, oppure regalare una piccola colazione o un aperitivo, insomma iniziative volte ad incentivare l’arrivo del pubblico in sala.

La pandemia come ha cambiato Gianni Canova nella sua sfera privata e come lo ha cambiato nel suo ruolo di Rettore?

Passato il primo momento di paura, di disorientamento e di disagio, la pandemia non ha cambiato di molto il mio privato. Io sono un uomo molto solitario, passo gran parte del mio tempo lavorando 15-16 ore al giorno, i miei sabati e le mie domeniche le passo davanti al computer, pochi i week end di svago. Dal punto di vista rettorale la pandemia ha rallentato tutta una serie di processi innovativi che erano in cantiere e che si sono fermati, perché la quotidianità l’abbiamo dovuta dedicare alle falle e ai problemi che si presentavano di giorno in giorno. Docenti che opponevano resistenza a passare sul web, altri che non erano e non sono capaci di fare esami, alcuni che si rifiutano di venire a fare lezione nel momento in cui è consentito. Ancora oggi, nonostante abbiamo avuto il privilegio di essere tutti vaccinati, devo combattere con docenti che si rifiutano di venire a fare le tesi in presenza, nel prossimo mese di luglio. Per questi scatterà il provvedimento disciplinare. Per fortuna ne esistono altri bravissimi.

Anche Milano è cambiata. Polo universitario, meta turistica, centro economico del Paese, cosa vedi per il futuro di Milano, dopo la pandemia, dal tuo osservatorio dell’Università?

Milano è una città straordinaria perché cresce a prescindere dalla politica, questo non succede a Roma o a Bologna per esempio. A Milano, la politica esiste, ma la città si muove per i fatti suoi. Milano è diventata la più grande città universitaria d’Italia e questo non lo ha voluto la politica, è successo. È una città aperta, non ti domanda in che Dio credi, con chi vai a letto, Milano guarda se sai fare bene il tuo lavoro, osserva il tuo talento e ti premia per questo. Credo che sia l’unica grande città in Italia che ha questa laicità e questa apertura. Non è un caso infatti che si faccia fatica a trovare candidati sindaci, perché il sindaco conta poco ed è più possibile che faccia danni invece di portare benefici, come è successo anche di recente. La città cammina da sola, ha una sua forza, un suo orgoglio ambrosiano, meneghino, che non si smentisce mai. L’unica cosa che Milano può chiedere alla politica è più libertà e meno burocrazia, questa è la cosa che servirebbe. Le risorse economiche, intellettuali, creative, imprenditoriali, progettuali la città le trova da sè. Milano in questo senso è davvero la capitale morale del Paese.

Una domanda su un evento recente, le dimissioni di Antonio Scurati, premio strega per M e docente IULM, da Presidente della Fondazione Ravello, per il dissenso nei confronti del socio fondatore (la regione Campania) per l’ingerenza del Presidente De Luca che non gradiva come ospiti Saviano e Speranza. Qual è la tua posizione?

Credo che Antonio abbia fatto benissimo a difendere la propria indipendenza di intellettuale di fronte ad un’ingerenza della politica. E’ risaputo che la politica non è un opera pia, non compie opere di bene, ti dà qualcosa, perché si aspetta qualcos’altro in cambio, quindi la cosa non mi scandalizza. Antonio ha avuto la forza di dire no ad atteggiamenti come quelli che il governatore De Luca ha avuto. Questa però non è una prerogativa dello sceriffo De Luca. Lui è un guappo, altri lo fanno in modo più mellifluo, più sottile, ma lo fanno. Sono talmente più sottili, che spesso gli intellettuali nemmeno se ne accorgono, non credo che gli intellettuali siano in questo momento, in questo Paese, un esempio di libertà e di indipendenza.

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