Cinema
Camera oscura
Due parole, due settimane dopo l’uscita del film nelle sale d’Italia: Room, ultima fatica dell’irlandese Lenny Abrahamson, è un piccolo pugno alla bocca dello stomaco. Piccolo, poiché lo è solo in parte.
Il soggetto è di Emma Donoghue, autrice del romanzo Stanza, letto, armadio, specchio, cui il film si ispira e che, a sua volta, aveva tratto ispirazione dal caso dell’austriaco Joseph Fritzl, che tenne segregata la figlia Elisabeth per ventiquattro anni in un bunker sotterraneo. La Donoghue, che firma anche la sceneggiatura del film, aveva scelto di narrare l’intera, agghiacciante vicenda dal punto di vista di Felix, il minore dei sette figli che Elisabeth Fritzl ebbe dal suo padre aguzzino.
In Room la prospettiva infantile ritorna e ha gli occhi di Jack, un incredibile e intensissimo Jacob Trembley. Joy Newsome (il premio Oscar Brie Larson) è reclusa nel capanno da sette anni, rapita con l’inganno dall’insano Old Nick quando era ancora ragazzina. Jack è al mondo da cinque: da quando è nato vive in Stanza, un luogo fatto di entità assolute, oggetti che si chiamano per nome, che sono compagni di vita cui dare il buongiorno ogni mattina. Qui esistono serpenti fatti di gusci d’uovo ed esistono ragni e zanzare, uniche forme di vita reali oltre a Jack, Mà e Old Nick. La televisione è una scatola magica, oblò verso un esterno immaginario in cui compaiono strani animali ed esseri umani finti, “piatti e fatti di colori”. Il mondo fuori, semplicemente, non esiste. Oltre quelle mura c’è solo il cielo: Jack può vederlo grazie a Lucernario, unica fonte di flebile luce in quel capanno oscuro. Poi, lo spazio. Nel mezzo c’è Old Nick, che va a trovarli tutte le sere. Non è un amico, ma in fondo non è neppure così cattivo e spaventoso: ogni tanto urla, ma è un mago, riesce persino a procurar loro del cibo attraverso la tv.
Gli occhi di Jack rendono quella vita quasi accettabile: una tragedia mascherata guardata con gli occhi di un bambino nato in cattività, attorno al quale l’amore di una madre, assolutamente consapevole dell’orrore che sta vivendo, costruisce un mondo immaginario. Ed è così che la vita reale diventa gradevole e sopportabile, pur essendo fatta di segregazione, di quotidiani soprusi e di abusi che il bambino, semplicemente, non avverte come tali. Il rapporto tra madre e figlio è inevitabilmente simbiotico, drammaticamente assoluto: l’uno non ha che l’altra, e viceversa; i due si salvano a vicenda. Jack sta bene perché non ha mai avuto il mondo intorno, e non ha mai dovuto imparare a privarsene. Quel “fuori” che conosce è narrato dalla rassicurante voce di sua madre, ma è proprio “un’altra storia” quella che Jack reclama urlando e piangendo, nel momento in cui lei cerca di dirgli cosa c’è davvero oltre le mura.
Jack non ha mai sentito la mancanza di un esterno che, quando arriva, si presenta come una realtà troppo grande, troppo difficile da percepire, troppo spaventosa; persino il tempo diventa poco, “perché deve essere spalmato su tutto, come il burro”. La libertà guadagnata diviene una costrizione a sua volta, che fa pochi sconti alla chiusura di Jack e al crollo psicologico di Joy.
La prima parte del film è energica e intensa, capace di scandire la monotona quotidianità di madre e figlio mantenendo un ritmo costantemente serrato. La macchina da presa si muove in un interno ridottissimo, di soli dieci metri quadri, ma riesce a rimandare perfettamente quella che è la visione di Jack: la vita in uno spazio alla fin fine ampio, in cui c’è posto per qualsiasi cosa, persino per un cane immaginario. Concentrandosi spesso sui due protagonisti e giocando sul fuori fuoco per il contesto, la regia ridisegna uno sfondo rarefatto che non costringe né opprime e che solo in alcuni momenti, scanditi dallo sguardo lucidissimo della madre, appare nella sua ristrettezza claustrofobica, riportandoci al dramma contingente di quella vita.
Al momento del superamento della soglia, noi tutti certamente desideriamo sapere: guardare oltre le quattro mura della stanza per vedere il modo in cui i due si relazionano al mondo dopo la cattività, il modo in cui questo mondo li accoglie. Ma il racconto di quel “dopo” risulta quasi didascalico, trattato con un approccio assai più convenzionale nella narrazione di prevedibili meccanismi psicologici e sociali. E forse allora facciamo un passo indietro, e ci troviamo a desiderare che il film fosse finito con quell’abbraccio liberatorio e intensissimo, prima di perdere gran parte di quell’incisività e di quella efficacia che pure era stato capace di mantenere fino ad allora. La perdita della forza narrativa si traduce in uno sguardo esterno quasi voyeuristico su quelle “vite degli altri” e su quei superficiali risvolti che, in fondo, non era necessario esplicitare.
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