Cinema
Brimstone, la storia di una donna nel selvaggio west
Immaginiamo nuovamente il west, diamoci una calmata con assalti frontali e sparatorie, ma proviamo ad immaginare la storia di una donna.
Non eliminiamo il sangue, la cattiveria, l’odio e la freddezza della morte, solo prendiamo altri personaggi, altre vicende.
È quello che ha fatto Martin Kookhoven in Brimstone, una ben riuscita fusione tra western, thriller e drama, in cui un’ossessione diventa persecuzione e il fanatismo religioso sembra ammorbare una mente fino a farle compiere i più abbietti dei misfatti.
La protagonista del delirio di onnipresenza registica è Liz, interpretata da Dakota Fanning, una ragazza madre muta per vocazione che vive serenamente con il marito Eli in una tranquilla fattoria del west, in un paesaggio filmico, con diligenze e lampade ad olio accese sul far della sera. Tutto cambia quando arriva in paese il nuovo reverendo (Guy Pearce) che sembra conoscere bene Liz e farà di tutto per perseguitarla.
Perché l’uomo la segue? Perché la conosce da così tanto tempo? E qual è la vera storia di Liz? È solo una debole timorata di Dio o una donna che nasconde una storia densa di terrore e atti al limite della decenza umana? Tutto verrà svelato nel corso dei capitoli che non proprio in ordine cronologico verranno proposti allo spettatore (e avranno titoli decisamente biblici), ma lasceranno scoprire una storia che cresce con il passare del tempo, con un impeto folle e un concentrato di violenza disperata e talvolta persino esagerata.
Sì perché come in una tranquilla esposizione tarantiniana, il sangue scenderà a fiumi, ci saranno grida e terrore, barbe ispide e cicatrici sulle guance, nulla farà pensare ad un quadrettino soft per adulatori delle storie semplici. Il Male prende di petto tutti capitoli della storia, è lo stesso mefistofelico, luciferino, diabolico passo che semina odio e fa stringere il cuore di Liv. Un peso che si porta dietro da troppo tempo e che tenterà con tutte le sue forze di arginare o quanto meno non far ereditare a sua figlia, il suo alter ego in un mondo spietato, un fiore da proteggere e conservare, la sola con cui riesce a parlare ora che non ha più una lingua con cui articolare le parole.
Ogni scena di orrore è un vero pugno allo stomaco, ma qui c’è di più, una crudeltà che si adagia bene in un mondo spietato come quello del west, in cui, adesso, una donna è la protagonista, nel bene o, soprattutto, nel male. E poi come in ogni film western c’è la rivincita, o forse una resilienza dolce amara con un finale tutto da scrivere.
Lo stile di Koolhoven è raffinato, la fotografia è di un’intensità palpabile così come le storie secondarie hanno una loro dignità letteraria e narrativa. Il tutto va a comporre un bel film con una Dakota Fanning straordinaria, recita senza parlare per quasi tutto il film, che a metà tra ragazza e madre vuole difendere il suo onore e sua figlia lottando come una leonessa in un deserto popolato da soli uomini, spietati e arrivisti. La riuscita del film, secondo me, sta molto nella calibratura oggettivamente realizzata in tutte le sezioni narrative, non in ordine cronologico, che riescono a far appassionare alla storia e ai personaggi. Kit Harrington, nella parte di Samuel e Clarice Van Houten, in quello di Anna, madre di Liz, hanno un ruolo non di poco conto e sono altresì fondamentali per la storia principale. Bellissima anche la parte della piccola Emilia Jones, che interpreta Liz (che poi non si chiama Liz, ma scoprirete perché) da piccola, la sua innocenza, il suo sguardo sono l’antitesi della violenza e della depravazione di un mondo ancor più che selvaggio.
Si arriva alla fine con un bel peso al cuore, ma soprattutto con tante riflessioni da poter fare. E non è forse un bel modo di fare cinema?
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