Cinema
Black Panther e le insidie del pensiero liberal
Le sette nominations, poi tradotte in tre premi, di Black Panther hanno di sicuro sorpreso e possono offrirci lo spunto per parlare di un argomento in realtà abbastanza ortogonale a Black Panther. Il film ha negli intenti un aspetto blandamente emancipatorio che si interseca con le complicate dinamiche americane sulla questione razziale, però dietro questa offerta positiva, si nasconde un bispensiero involontario, un sentore ipocrita a pochi anni dall’hashtag oscarssowhite, che fa chiedere allo stesso Spike Lee quanto durerà questa attenzione per il cinema “black”. L’edizione di quest’anno invece è stata definita come un riscatto per la cultura afroamericana, e ciò maschera, a maggior ragione fuori dagli USA, le vere problematiche di ghettizzazione e di difficoltà sociale che si traducono, per esempio, in una tasso di carcerazione spropositamente diseguale tra bianchi e neri.
Tutto ciò rientra in quello che è stato chiamato da Mark Fisher, nell’omonimo libro, realismo capitalista. Le aziende, le grandi industrie multinazionali trovano il modo per arricchirsi al sicuro e col plauso dell’opinione comune, tanto da raccogliere premi con opere eticamente positive le quali offrono elementi apparentemente critici verso le problematiche della nostra società, o che suggeriscono l’emancipazione di altre, quando in realtà riaffermano l’ordine costituito del there is no alternative, con tutto il suo contributo alle discriminazioni.
In aggiunta a questo c’è il rischio di veder crescere, nella trascuratezza dei problemi materiali delle persone, un risentimento della classe lavoratrice più in difficoltà verso questo ottimismo offerto da attori benestanti, il quale si traduce nelle varie accuse di “buonismo” quando si parla di accoglienza, viene intercettato nelle rivendicazioni operaie dei vari Salvini e Trump o produce aberrazioni che trasformano Black lives matter in All lives matters, che ribadisce l’ovvio negando un problema. È doveroso quindi dare una corretta spiegazione dell’ipocrisia liberale, altrimenti lasciata in pasto alla demagogia destrorsa.
Già film pluripremiati agli oscar come Fronte del porto di Kazan, furono ben analizzati da Roland Barthes nel suo “Miti d’oggi”: qui troviamo un contributo narrativo che tocca aspetti socio-culturali critici ma è offerto dal potere costituto e dunque conservatore, che oggi si esplica nel pensiero unico liberale, perciò l’efficacia si perde nella scelte allegoriche che mancano il bersaglio. Non si tratta ovviamente di un complotto massonico, di una pianificazione, ma più di un’indagine di mercato che intercetta un sentimento della comunità, avverso proprio a chi poi riesce a vendere e guadagnare su di esso. In Fronte del porto questo sentimento spinge lo spettatore a partecipare assieme al protagonista nella sua lotta anche se alla fine tutto “si risolve nella grande stabilità di un ordine benefico dove gli operai lavorano, i padroni stanno a braccia conserte, e i preti benedicono gli uni e gli altri nelle loro giuste funzioni”.
Scrive Mark Fisher a proposito del premiatissimo Wall-E:
“L’anticapitalismo è ampiamente diffuso tra le pieghe del capitalismo stesso: quante volte nei film di Hollywood il cattivo di turno altri non è che qualche cattivissima corporation? È un anticapitalismo gestuale che, anziché indebolire il realismo capitalista, finisce per rinforzarlo. Un film come Wall-E inscena il nostro anticapitalismo per noi stessi, dandoci al contempo la possibilità di continuare a consumare impunemente.”
Anche il messaggio positivo di Black Panther che offre ai bambini un eroe nero in cui identificarsi si inserisce in queste narrazioni. Pone una distanza tra la realtà e quello che è presentato sullo schermo, mentre ingrassa i profitti a suon di applausi di chi crede questa sia la strada più corretta. Certo non è compito di un cinecomic analizzare (anche se quando prova a farlo appare reazionario), o proporre soluzioni ma è abbastanza per distorcere la percezione, per dare la speranza che possa esistere capitalismo senza razzismo, al contrario di quanto sosteneva Malcom X. La mistificazione lascia un falso senso di sicurezza quando poi, dopo aver visto il film alla sera, si torna al lavoro con un salario affamatore o si viene uccisi per strada dalla polizia per il colore della propria pelle; insomma per usare ancora le parole di Fisher: “l’assoggettamento non ha più le forme della subordinazione a uno spettacolo esterno, ma ci invita piuttosto a interagire e partecipare”.
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