Cinema

Bellissime: è possibile sopravvivere all’ossessione per la bellezza?

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19 Novembre 2019

La prima volta che ho visto una bambina con mascara, rossetto e blush ho pensato a un cortocircuito: per quale motivo una bambina veniva truccata, vestita e spinta a comportarsi come un’adulta in miniatura?

La risposta – che mi si è paventata davanti dopo quattro anni di interviste, incontri, sfilate e casting, e che è diventato “Bellissime” per Fandango – si è rivelata più semplicistica del previsto: è business. Uno dei pochi business in attivo nel nostro Paese, che ha superato l’anno scorso – secondo le stime di Pitti Bimbo 2019 – i 2,9 miliardi di euro annuali (+2,3% rispetto al 2017).

Un business che si esercita guadagnando sul corpo del minore, manichino – o “bambino robot” secondo la definizione di alcune mamme/agenti – che nelle mani dei brand di moda diventa strumento per l’esercizio del potere commerciale, a metà fra il marketing e l’opera del dio egizio Ptah.

Per quanto dalla riflessione allargata sul tema sia nata una proposta di legge e un numero ingente di interrogazioni parlamentari che dubitavano del trattamento dei minori, e delle conseguenze degli stessi, tutto è rimasto identico: molte bambine hanno continuato e continuano a essere piccole modelline ipersessulizzate nelle mani dei brand della moda, altrettante mamme hanno continuato e continuano a considerarsi abili manager, la pubblicità vomita stereotipi di cosa deve essere una “bella bambina”, una “brava bambina”, una “bambina moderna”.

La potenza distruttiva del fenomeno si è mostrata dunque nella sua duplice anima: ha colonizza non solo il presente e il futuro di chi è diventato corpo per mettere in atto lo stereotipo, quanto il presente e il futuro di chi dello stereotipo ha fruito/fruisce. Se nel secondo gruppo – praticamente l’intera popolazione italiana – possiamo ammirare le conseguenze giornalmente, indagare il primo è più complesso. Ed è stato il tentativo messo in atto con “Bellissime” – prodotto da Fandango e da TimVision – in cui ci siamo interrogati sullo stesso con la sceneggiatrice Antonella Gaeta e la regista Elisa Amoruso, che subito dopo ha firmato il documentario di Chiara Ferragni, una che ovviamente da quel mondo è uscita vincitrice.

La domanda dietro cui tutto ruotava era: cosa succede quando una bambina che ha avuto successo nella moda diventa grande? E, ancora, cosa succede quando una ventenne si confronta, dopo una grande fortuna, con un mondo che non si dimostra più accogliente?

La risposta è stata meno scontata del previso. Perché le protagoniste che inizialmente dovevano essere Giovanna Goglino, la bimba Barbie più famosa degli anni Novanta, e le sue sorelle a loro volta baby modelle, Francesca e Valentina, sono state letteralmente fagocitate da una madre che ha introiettato un messaggio protofemminista, nutrendolo di una fisicità ipersessualizzata, stordita da un corpo forgiato in nome dello sguardo (proprio e altrui), e dell’imperante cultura social. La bellezza, che avrebbe dovuto essere strumento e oggetto di riflessione, si è trasformata in qualcosa di diverso: è divenuta un’iper-bellezza, frutto di una entusiastica, strabiliante e dolorosa iperfetazione famigliare, ma anche un terreno di confronto parossistico. La bellezza pur rimanendo uno strumento per tentare il successo (come faceva Anna Magnani con Tina Apicella), si è mostrata come un elemento da cui affrancarsi e nel quale avvilupparsi, tentando invano di sdoganare le proprie mancanze. Esattamente come accade fra un post, e una fotografia. Fra uno sguardo smaliziato, e il successivo.

“Bellissime” della regista Elisa Amoruso è tratto dall’omonimo libro-inchiesta di Flavia Piccinni. Il film sarà al cinema fino a domani sera, e poi da metà dicembre sarà disponibile su TIMVISION. 

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