Cinema
Banane dal futuro – “Panama Papers” di Steven Soderbergh
Una cosa molto interessante: nell’ultimo film di Steven Soderbergh sui Panama Papers (disponibile su Netflix dal 18 ottobre scorso), non c’è traccia di denaro contante. Giusto che sia così, perché per parlare di uno dei più roboanti scandali finanziari degli ultimi cinquant’anni, non si poteva procedere diversamente. In realtà – per essere molto precisi – le banconote appaiono più o meno all’inizio di ognuno dei capitoli attraverso i quali si sviluppa il racconto dell’intera vicenda: banconote a tutto schermo, esplorate e destrutturate per mezzo di animazioni in digitale con interventi sulle forme e i disegni contenute in esse. È un modo per renderle ironicamente più innocue, per lavarle (il titolo originale del film è The Laundromat, che si riferisce alle lavatrici a gettoni, analogia spesso utilizzata per indicare la pratica del riciclaggio di denaro) dalle colpe che si portano dietro; per dire che sì, sono materia tangibile ma allo stesso tempo preludio dell’immaterialità del processo “sporco” dell’elusione fiscale.
È un film estremamente intelligente quello di Soderbergh perché punta sull’ironia seguendo alcune vicende (basate in buona parte su Secrecy World di Jake Bernstein) che più o meno si intrecciano e fanno sì che si crei un rapporto stringente tra il reale angosciante del mondo in quanto contenitore e quello grottesco degli uomini in quanto contenuti. Cioè come a dire che il mondo e ciò che gli sta dentro sono una cosa estremamente seria, ma che se la si analizza nei dettagli risulta poi essere ridicola e puranche assurda (come si potrebbero altrimenti definire eventi come l’onda che sommerge il traghetto e il palo dell’elettricità che cade fulminando la prestanome?).
Panama Papers riflette quindi prima di tutto sull’irrazionalità dei processi socioculturali, provando a smascherarne le messe in scena e indicandoci che dietro una cosa che ci appare in un primo momento vera possa esserci, con buona probabilità, ancora più verità, perché quando si ha consapevolezza della finzione che tiene in piedi tutto il falso, semplicemente, non può esistere la menzogna (si pensi al finale, non dico altro per non rovinare la sorpresa a chi ancora non ha visto il film). In fondo la storia del denaro è veramente tutta una sequela di gusci vuoti e rappresentazioni simboliche che sembrano non dire niente ma che in verità definiscono i caratteri dell’umanità meglio di qualsiasi altra cosa e dai quali, al di là di ogni indignazione morale ed etica, sarà dura distaccarsi. Probabilmente quelle “banane dal futuro” di cui ci parla Jürgen Mossack, per tentare di spiegarci che cosa sia il credito, sono sempre state, e sempre saranno, più allettanti e gustose di quelle del presente.
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