Cinema

Andate a vedere “Mommy” di Xavier Dolan

6 Dicembre 2014

Ci sono momenti in cui ci si sente in pace, in cui si ha l’impressione di poter strappare il velo che oscura la realtà. Brevi istanti che sono come meravigliose epifanie. È come se arrivassimo alla radice delle cose, se afferrassimo per un istante la vita e il suo senso.

Sono momenti in cui il sacro si manifesta, la storia si interrompe e il tempo rimane sospeso. In quegli incostanti attimi noi contempliamo la libertà.

Xavier Dolan a soli venticinque anni riesce a regalare queste sensazioni e dimostra una cultura emotiva che renderebbe migliore il mondo. 

Il suo Mommy narra l’amore viscerale tra una madre e un figlio. Viscerale e dolce. Viscerale e violento.

Steve soffre di disturbi emotivi, un attimo è affettuoso e tranquillo, l’attimo dopo aggressivo e feroce. Questo accade quando le difficoltà, i problemi e le discussioni entrano in contraddizione con la sua natura straordinariamente libera. Steve ascolta le sue pulsioni profonde ed è incapace di sublimarle civilizzandole.

L’ambiente gli è ostile, con i suoi problemi e la sua razionalità obbligata.

Allora Dolan sospende il tempo e Steve è libero in immagini di meravigliosa poesia in cui balla sul suo skate e con un gesto delle mani apre in due il mondo. Forse è da quell’interstizio che si sprigiona la sua energia esplosiva. Tremenda e divina.

Mi torna alla mente Pier Paolo Pasolini quando difendeva coloro che hanno spinte pulsionali “anormali”, cioè fuori “norma”, dicendo che solo per questo devono essere scaraventati ai margini della società, mi torna alla mente Michele Foucault e il suo sforzo per spiegare così meticolosamente che cos’è la società normata, disciplinata.

Mi torna alla mente infine Simone Weil, di cui ho già scritto su queste pagine, per il legame che sottolinea tra follia e verità. É bello riportare qui parte della lettera che scrive a sua madre quattro giorni prima di morire, era l’agosto del 1943:

“Quando ho visto Lear, qui a Londra, mi sono chiesta per quale ragione il carattere intollerabilmente tragico di questi folli non fosse mai saltato agli occhi della gente (e ai miei). Il loro carattere tragico non sta tanto nelle cose sentimentali che si suole dire al loro riguardo, ma piuttosto in questo:

in questo mondo, solamente degli esseri precipitati al fondo dell’umiliazione, ben al di sotto dello stato di mendicità, non solo senza alcuna considerazione sociale, ma giudicati come totalmente sprovvisti della fondamentale dignità umana, cioè della ragione – solamente costoro di fatto hanno la possibilità di dire la verità.

Tutti gli altri mentono […]. Il massimo della tragicità sta nel fatto che, poiché questi folli non hanno né il titolo di professore, né di vescovo […] nessuno sa che dicono la verità. Non delle verità satiriche o umoristiche, ma semplicemente la verità. Verità pure, inalterate, luminose, profonde, essenziali”.

Anche Steve dice la sua verità nel film di Dolan, e lo fa senza filtri. Vola libero con il suo skate e la musica sparata nelle orecchie. Tutta l’aggressività che manifesta è dolce debolezza, difficile da curare con una camicia di forza. E allora corri Steve, verso la libertà.

Non so se il regista pensasse queste cose nel mettere in scena il suo lungometraggio, vincitore del premio della giuria al Festival di Cannes 2014. Ma non importa.

Dolan ci fa vedere la bellezza e ci regala attimi in cui consacra la vita. Basta questo.

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