Cinema
America Latina, un film disturbante e provocatorio
America Latina dei Fratelli d’Innocenzo è un canto territoriale che traspone certe storie da periferia americana nella Latina contemporanea, dentro una casa non-luogo. Quelle case brutte da condono sorte negli anni 80. Una storia dentro la storia di una mente che si crepa e fa sue immagini sporche.
Tutto è sporco lì attorno, tranne la moglie e le figlie, angeli del focolare, perfette, eteree, perennemente bianche a fare da contrasto a pareti della casa rosse, rossissime, quasi opprimenti, quanto il sangue, si potrebbe dire.
E qui arriva la prima narrativa: il machismo imposto da un padre uomo duro, vero, su un figlio (il personaggio interpretato da Elio Germano) sensibile e che per questo non si accetta e non si ama, sentendosi una colpa addosso capace di tramutare la sensibilità in altro, all’opposto.
Il film mette su pellicola il tema del maschio tossico senza farne sermoni ma stimolando una serie di domande sullo spettatore, sul perché il machismo sia sbagliato e tossico, in primis per l’uomo che lo subisce.
Prima citavamo Elio Germano: qui è il protagonista su cui si regge l’intero film, assieme ad uno sviluppo narrativo dei due Fratelli che è per immagini. Esse parlano, raccontano più della stessa storia, delle parole, dei dialoghi minimali e della colonna sonora (se pur composta di Verdena) che arriva nei punti giusti assieme ad effetti sonori, i quali dimostrano un gran lavoro anche in tal direzione.
America Latina però non è un film per tutti, non è nemmeno così popolare come Favolacce, pure parlando del minimo umano e delle sue crisi emotivo-identitarie. È un film respingente, fatto per farti provare una sensazione di oppressione, tensione e ansia, quasi fosse un thriller con tinte horror a là Eggers (Lighthouse).
È qui che però soddisfa, sfida e porta a casa il suo fottuto compito, perché se tieni duro e ti lasci guidare dai suoi distorti effetti ti sentirai vincitore di un’empatia cinematografica che racconta molto, e sempre per immagini. Anche questo, per chi vi scrive, è banalmente un motivo che fa venire voglia di andare in sala e appassionarsi alle pellicole. Un negativo catartico per arrivare al positivo (rivedetevi le Salò o le 120 giornate di Sodoma del Signor Pasolini).
America Latina è una provocazione, sottile, ma provocazione. Utile? Si, perché “cos’è il rap (o qualsiasi forma artistica) senza provocazione?” citando anche se in ambito diverso il Mondo Marcio di Fight Rap.
Ora però vi racconto la metafora che – forse, questa recensione rimane la mia lettura personale alla fin fine – più mi ha colpito. Ad un certo punto avviene una cosa che metaforicamente potrebbe essere collegata al detto “avere scheletri nell’armadio”, ma scheletri da intendere come la nostra parte più cupa, tragica, sadica, che per primi non vogliamo vedere e ci auto nascondiamo talmente tanto da dimenticarcene. Tale parte però ogni tanto sbuca, ci sorprende, ci provoca (a suo modo) e cerchiamo di conviverci, di capirla, provando a creare un confronto con lei, sorprendendoci del fatto che essa sia elemento dell’imperfezione umana; ne siamo attratti, come un buco nero spaziale, perché ci costituisce dalla nascita, e vogliamo saperne di più.
Così questa oscurità, questo male, psicologicamente, ci appartiene in maniera simile alla lettura che ne aveva dato Dreyer in Vampyr (e a un certo punto per fattezze viene forse citato anche il Conte Orlok)
Comunque, che sia parte cupa o machismo tossico sempre di crepe della mente si parla, e America Latina da loro spazio fisico per farle arrivare allo spettatore.
La terza creazione dei Fratelli D’Innocenzo non è utile a dire se sia “bella” o “brutta” in senso assoluto, ma a discutere e a farsi e far domande, ovvero la parte succosa dell’esperienza cinematografica, cioè mostrare i chiaro/scuri come l’acqua in cui, durante la visione, ci si immerge.
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