Cinema
Afrofuturismo: la filosofia che passa dai costumi di scena
Black Panther, Selma e Fà la cosa giusta. Non sono tre film a caso, bensì pellicole che hanno molti aspetti in comune. Innanzitutto i tre registi: Ryan Coogler, Ava DuVernay e Spike Lee, tutti afroamericani, raccontano storie vicine alla loro etnia.
Black Panther è il primo supereroe di colore cui i Marvel Studios – quelli dei cinecomics che smuovono milioni – dedicano un intero lungometraggio, ambientato in una città utopica i cui abitanti sono tutti neri alla ricerca di un loro spazio nel mondo. Selma, noto anche con il suo sottotitolo italiano, La strada per la libertà, è uno dei più recenti biopic su Martin Luther King, incentrato sulla marcia da Selma a Montgomery, capitale dell’Alabama, per rivendicare il diritto di voto alla comunità nera. Fà la cosa giusta è uno dei più noti film di Spike Lee; diretto, prodotto e interpretato dallo stesso nel 1989; la pellicola tratteggia le vicende di una rivolta razziale nel quartiere di Brooklyn, durante una giornata fin troppo calda.
La similitudine principale, però, almeno ai fini di questo approfondimento, riguarda i costumi delle tre pellicole. In tutti e tre i film, infatti, la costumista è stata Ruth E. Carter.
L’abito fa il monaco
Carter, a 61 anni, è una veterana di lungo corso a Hollywood. Attiva fin dal termine degli anni ’80 – cominciò proprio con Lee, di cui è storica collaboratrice – è produttrice oltre che costumista. Nella sua carriera ha curato i costumi delle pellicole già citate oltre a quelle di altri importanti titoli relativi alla questione afroamericana; da Malcolm X a The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca, da Shaft al recentissimo Coming 2 America – Il principe cerca figlio. Non è certo un’eresia dire che oggigiorno sia una delle migliori nel suo lavoro.
Ruth E. Carter è stata candidata tre volte agli Academy Awards, gli Oscar della cinematografia, per i migliori costumi (Malcolm X, Amistad e Black Panther), vincendo la statuetta nel 2018 per il cinecomic di Coogler. Si è trattato della prima volta che una donna afroamericana si è aggiudicata questo premio e del primo Oscar mai andato ai Marvel Studios. Ciò che appare particolarmente rilevante è quanto Carter riesca a comunicare tramite la sua arte, con i suoi vestiti di scena.
Non è da tutti padroneggiare le arti visive a un livello tale da riuscire a comunicare arte, cultura e politica. Carter è stata in grado di creare costumi davvero capaci di immergere gli attori nei ruoli che stavano rappresentando. Pensiamo ad esempio alla nota Oprah Winfrey nei panni di Annie Lee Cooper, attivista per il diritto al voto, in Selma. O a Denzel Washington che interpreta Malcolm X nell’omonimo Spike Lee joint, come definisce i suoi lavori il regista newyorchese. O ancora al compianto Chadwick Boseman quando presta il volto al re di Wakanda in Black Panther. Nella sua ultratrentennale carriera, la premio Oscar ha vestito numerosi dei più celebri attori di colore: Angela Bassett, Eddie Murphy, Lupita Nyong’o, Rosie Perez, Forest Whitaker e numerosi altri.
La sua abilità di creare personaggi riusciti, realizzati fin nel dettaglio attraverso i suoi costumi la ha resa una delle designer più ricercate oggi. La creatività e l’attenzione alla ricerca di Ruth E. Carter l’hanno portata a lavorare su oltre 60 titoli, indipendentemente dal genere.
Un’icona nera e una mostra per celebrarla
La sua profonda comprensione del carattere e degli stati d’animo dei personaggi, combinato ad un talento e un’innata abilità nel saperli raccontare e trasmettere tramite colori e tessuti l’hanno resa un’abile storyteller capace di condividere passato, presente e futuro della cultura afroamericana.
Carter, originaria della città di Springfield, nel Massachusetts, si è diplomata in arti teatrali alla Hampton University, college tradizionalmente nero ove si innamorò della recitazione, tanto da voler fare l’attrice. Come spesso capita, però, il caso volle che, lavorando nel guardaroba del college, si avvicinasse al costume design, restandone folgorata. Da quel momento in poi, la strada di fronte a sé le divenne cristallina. Dopo un tirocinio al Teatro dell’Opera di Santa Fe si trasferì a Los Angeles, iniziando a collaborare con compagnie teatrali e di danza. Nel 1988, Spike Lee la reclutò per curare i costumi di Aule turbolente e da lì in avanti la carriera di Carter decollò. La costumista lavorò 14 volte con il regista e fu parte integrante di produzioni guidate da Coogler, DuVernay – come abbiamo visto, Lee Daniels, John Singleton e Steven Spielberg. Nel 2019, Netflix le dedicò una puntata di Abstract, un documentario dedicato ai più importanti artisti impegnati nel mondo del design e la Costume Designers Guild le riconobbe un premio ai meriti in carriera. Fu un anno ricco di premiazioni quel 2019, quando le venne riconosciuto anche l’Oscar di cui sopra.
Il museo della moda SCAD di Atlanta ha deciso di dedicare a Ruth E. Carter una mostra sul suo lavoro, intitolata L’afrofuturismo nel costume design. L’installazione celebra il lavoro della costumista accanto a quello di altre prominenti figure afroamericane che si siano contraddistinte a Hollywood, all’interno di un mondo tradizionalmente bianco come il volto di John Wayne. Presso il museo è possibile vedere alcuni dei più iconici costumi creati dalla designer. L’esibizione si concluderà a settembre.
Che cos’è l’afrofuturismo
“Oggi mi esalto ancora molto a parlare di Black Panther. È straordinario pensare a quanto abbia significato per tutti noi afroamericani utilizzare qualcosa di veramente africano e metterlo all’interno di un film. È stato possibile mostrare al mondo qualcosa proveniente dalla cultura sudafricana e qualcosa del Lesotho, lo ha reso molto più significativo, ha dato forza e profondità al film.” Ha detto Carter in una video-intervista rilasciata alla BBC.
I costumi di scena del lungometraggio erano imbevuti di tradizioni, storie e cultura del continente nero. Una profonda e accurata ricerca aveva portato la costumista, assieme alla production designer Hannah Beachler, a esplorare i modi di vestire dei Tuareg del Sahara e degli Himba della Namibia. La decisione di utilizzare la palette dei colori nero, verde e rosso, si deve allo studio della bandiera panafricana. La pellicola Marvel è il dodicesimo film per incassi nella storia del cinema. Quand’era in sala – e si poteva ancora andare al cinema – numerosi fan si sono recati alle proiezioni con vestiti tradizionali africani.
È innegabile che Black Panther abbia rappresentato una sorta di conquista per un’etnia – quella afroamericana – storicamente abbastanza trascurata e bistrattata dallo star system hollywoodiano; quello su cui dobbiamo ancora intrattenerci, però, è il motivo per il quale la parola afrofuturismo si addica al lavoro di Ruth E. Carter e dei suoi colleghi.
Per afrofuturismo intendiamo una corrente culturale risalente agli anni settanta. Teorizzato da scrittori e artisti – i primi furono il jazzista Sun Ra, il collettivo techno di Detroit, Jimi Hendrix, i Public Enemy, Erykah Badu, Octavia Butler, Nnedi Okorafor, Kodwo Eshun, Ellen Gallagher e altri loro contemporanei, oggi sono molto attivi gli OutKast e la poliedrica Janelle Monáe – il pensiero affonda le sue radici nel movimento per i diritti della comunità nera. Alludendo a simbolismo e animismo, l’afrofuturista desidera poter godere degli stessi diritti e privilegi dei suoi connazionali bianchi. La corrente futurista in particolar modo vuole essere parte integrante del discorso relativo a progresso e sviluppo tecnologico.
Obiettivo principale della corrente di pensiero è il superamento del concetto di razza. L’umanità non può e non deve essere considerata tale. All’immaginario afrofuturista non appartiene il concetto di schiavitù: finché esisterà non ci sarà umanità, poiché gli uomini non saranno tutti alla pari. Per estensione, neppure alieni e/o robot possono essere tenuti in condizione di sottoposti. L’immaginario nero nell’afrofuturismo viene spesso proiettato in dimensioni spazio-temporalmente lontane, sospese tra antico e moderno. Per tal motivo ritroviamo nella simbologia di questa corrente elementi anche molto distanti tra loro: fantascienza e tecnologia, misticismo africano, religioni ancestrali come quella vudù o dell’Antico Egitto… L’estetica di questo pensiero è davvero originale e il suo colorismo arride alla psichedelia.
Nelle arti grafiche, nella pittura, nei fumetti e nella musica si respira molto afrofuturismo; nel cinema forse un pò meno. Ruth E. Carter probabilmente non si collocherebbe all’interno del pensiero afrofuturista, in quanto preferisce restare al di fuori delle etichette di genere; molti dei suoi costumi però sembrano provenire proprio da questo ambiente. Basta guardare Black Panther o Coming 2 America per ritrovare negli abiti molti elementi che sembrano diretta emanazione di questa corrente. L’afrofuturismo, in fin dei conti, non è null’altro che un ingresso paritario delle persone di colore nella società. Questa filosofia vuole essere un metodo, un veicolo per quel fine.
L’afrofuturismo e il futuro africano oggi
I costumi di Ruth E. Carter hanno giocato e stanno giocando un ruolo importante – sotto gli occhi di tutti gli spettatori – in questo processo e lo fanno in quella stessa America del movimento Black Lives Matter e della cultura Woke. La parità etnica pare ancora poco più che un’utopia, tristemente, in questo nostro tempo; eppure il grande seguito mediatico che sta avendo il processo al poliziotto che ha assassinato George Floyd è un segnale positivo.
Non sappiamo se l’afrofuturismo possa essere la strada al futuro dell’Africa, sappiamo però che gli afrofuturisti – in senso stretto e in senso lato – si stanno muovendo in questa direzione. Auspichiamo che raggiungano la loro meta.
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