Cinema

120 Battiti al minuto: il film politico vietato ai giovani del belpaese

8 Ottobre 2017

Saranno forse le scene di sesso esplicite  come quella tragica consumata in un letto d’ospedale tra un malato terminale (il protagonista) e il suo pietoso e devoto compagno, o forse la carica politica di denuncia e coraggio, a cui non siamo davvero più abituati in questo paese politicamente sotto anestesia da anni, ad aver imposto a “120 Battiti al Minuto” il divieto ai minori di quattordici anni? Una lettura un po’ maliziosa del momento, direbbe la seconda, perché come  afferma, in una scena, una mamma attivista di Act Up Parigi, con figlio sedicenne sieropositivo a causa di una trasfusione, i ragazzi di quella età scopano, e rischiano di ammalarsi. Ed allora come ora l’ignoranza era ed è un nemico mortale, mentre la consapevolezza che ribellandosi si possono cambiare le cose e anche il mondo è speranza vera, forza delle persone, e pericolo per ogni forma di establishment.

Chi ha attraversato gli anni 90 come il sottoscritto ha avuto l’opportunità di vaccinarsi (se non contro il virus, contro l’ignoranza appunto); ha assunto infatti dosi massicce di un vaccino fatto di paura, sospetto, ma anche di informazioni essenziali per difendere se stesso e gli altri, che però necessita , come tutti i vaccini, di richiami. Chi quegli anni non li ha vissuti, perché troppo piccolo o semplicemente ancora non registrato all’anagrafe, chi non ha visto le foto di Rock Hudson ridotto ad una larva, o il sangue di Greg Luganis tingere l’acqua della piscina di Barcellona 92, semplicemente non sa e continua ad allungare la storia di questo temibile virus, e ad accorciare la propria.

“120 battiti  al minuto” racconta la vita quotidiana di ActUp Parigi, associazione che si batteva e ancora si batte per i diritti delle persone malate, contro l’ignavia di governi e l’avidità di case farmaceutiche.

Siamo nei primi anni novanta, ma a parte i jeans inesorabilmente a vita altissima, il tempo di questo bel film è adesso.

È attuale infatti  il messaggio che venga introdotta una vera educazione alla sessualità nelle scuole, di cui in Italia siamo ancora carenti, lasciando a youporn il ruolo di docente supplente.

È attuale che si ricordi che se di Aids non si muore più (almeno nei paesi ricchi, in quelli in via di sviluppo la storia è molto diversa), è pur vero che ammalarsi significa doversi curare tutta la vita con farmaci che comunque hanno una loro tossicità e significa anche rappresentare un costo enorme per la collettività in un epoca in cui la sanità è costantemente bersaglio di tagli da parte di governi ubriachi di neoliberismo.

È infine di straordinaria attualità l’inno alla vita e ai valori che alla vita danno senso pur nella sua assurdità tragica.

Ci si innamora, si è gelosi,  si lotta, ci si arrende, e si riparte più convinti di prima, uniti, cementati direi, da quella certezza di essere nel giusto, da quella inesausta voglia di esserci oltre la malattia, come le ceneri di una cremazione di una giovane vittima che vengono usate come arma di lotta e protesta durante una “azione”, sparse su un sontuoso buffet, e in faccia a ricchi affaristi sulla pelle altrui.

La felicità è anche nel lottare per una giusta causa.

La felicità (è questo che il regista Robin Campillo ci trasmette fra le pieghe di una storia collettiva che lascia respirare a pieni polmoni tante belle vicende individuali), è anche una questione politica.

 

 

 

 

 

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