Beni culturali
Violetta? S’è gettata dal Castel Sant’Angelo (O Alfredo, avanti a Dio!)
Lo zoo dell’opera è pieno di personaggi originali, da tutti i punti di vista. Di certo i personaggi principali del libretto, molto spesso sopra le righe. Ma poi anche quelli che all’opera ruotano intorno, ossia compositori, musici, cantanti, ballerini, registi, scenografi e così via fino ad arrivare a chi i teatri li dirige, impresari, sovrintendenti e direttori artistici.
L’ultimo sovrintendente esotico arrivato da noi è Sebastian Schwarz, tedeschissimo, che sembra un ragazzone assai simpatico e alla mano sebbene di gusti insoliti e, possiamo dirlo, anche bizzarri. Ma i tedeschi, si sa, soprattutto nel teatro e in quello musicale in particolare, amano le bizzarrie e ciò si può vedere negli sciagurati allestimenti d’opera di area germanica in ogni teatro, piccolo o grande, in ogni festival, blasonato o provinciale: dagli anni ’60 del ’900 in poi il trashic è stato il linguaggio più utilizzato e in maniera sempre più invadente. Viene fatta passare per innovazione, anzi svecchiamento dalle ragnatele melodrammatiche, un megaduster telescopico per arrivare anche dove non si può.
Ci viene annunciato dal nuovo sovrintendente del Teatro Regio di Torino che il pubblico fruirà di molte novità nel campo dell’opera. Un’idea assai originale è quella del finale a scelta. Un’opera à la carte: non ci piace come va a finire a un personaggio? Lo aboliamo, e un duetto potrebbe diventare un monologo o un trio riparatore, casomai il copione non abbia previsto, come invece succede spesso, un triangolo amoroso anziché il suicidio per amore. Happy end. Magari, invece, il cattivaccio di turno lo si potrebbe far morire tra atroci sofferenze, infilzato da cluster orchestrali estremamente sgradevoli. O mangiato dai cannibali. Medea non deve necessariamente uccidere i bambini: potrebbero farglieli sparire, visto il furor di madre, e darli in adozione alla Marescialla, la quale, per consolarsi della fuga di Octavian, potrebbe avere nel frattempo una storia lesbo con Cio Cio San oppure rinchiudersi in convento in compagnia di Leonora o di Donna Elvira. Il pubblico potrebbe esprimersi nell’intervallo e scegliere il suo finale. Chissà come si potrebbe allestire in un quarto d’ora un finale secondo i gusti del pubblico. Oppure, non mi piace il finale della Bohème, scambiamo il finale con quello del Barbiere di Siviglia. Oppure fare anche il karaoke autoinvitandosi a cantare sul palco “Nessun dorma“, ormai lo cantano tutti, uomini e donne,
https://www.youtube.com/watch?v=ao8sC4kt6CI
soprattutto bambine con pronunce olientali o spanglish.
D’altro canto, lascia intendere il sovrintendente, un pubblico che oggi è abituato a Netflix, alle serie tv e ai reality, va compreso e se lo si vuole portare all’opera bisogna rendere l’opera più vicina ai gusti del tempo, come se lo spettatore avesse un telecomando in mano. Il che potrebbe vivacizzare la sala con delle risse tra il pubblico per l’enorme varietà di finali disponibili e per i differenti gusti, anche perché magari il pubblico stesso potrebbe dire: non ci va il finale con quel cantante, chiamatene un altro per fare il finale alternativo. Immaginate il pubblico scaligero dell’epoca che si fosse sentito autorizzato a scegliere il finale dei Vespri Siciliani colla Callas optando invece per un finale diverso colla Tebaldi. Oppure, a metà del finale sorteggiato, interromperlo sul si bemolle del tenore e pretendere improvvisamente un altro finale che riprende dal si bemolle interrotto con un fa grave del Grande Inquisitore che compare all’improvviso per sedare gli ardori. Esattamente come si fa col telecomando quando qualcosa in tv ci annoia. Io suggerirei anche di fornire agli spettatori i chiassosi pop-corn e le ugualmente chiassose bibite con ghiaccio e cannuccia (il risucchio produce un lieto romore che ricorda che stai guardando un film in una multisala), proprio come al cinema, per avere la sensazione completa di una full immersion nel cuore del rumoroso periodo storico che attraversiamo, non bisogna far sentire a disagio il pubblico. Sono i rischi di questa troppa accondiscendenza verso l’epoca, ma se vogliamo attualizzarci dobbiamo fare i conti colla realtà.
L’attualizzazione dell’opera è il chiodo fisso dei gestori dell’opera. I quali sembrano non conoscere assolutamente il linguaggio dell’opera stessa. Ha un senso far esprimere i personaggi in lingue ormai obsolete come l’italiano di Pietro Metastasio o di Temistocle Solera o di Antonio Ghislanzoni, accompagnati dal suono classicissimo e arcaico delle orchestre sinfoniche, e poi farli agire in una scenografia che riproduce il centro commerciale in periferia o l’IKEA, o una discoteca, o un campo nomadi libico, per dare una patina di modernità all’ormai decrepito melodramma? Probabilmente per Schwarz e per molti altri organizzatori d’opera il senso ce l’ha. Io, da cantante classico ed esecutore, resto molto dubbioso. Chi dipana i miei dubbi? Aiutatemi, per favore.
Il trashic, categoria da me già abbondantemente analizzata in passato (chi è curioso la vada a ricercare tra i miei articoli: clicca), è la costante minaccia al teatro d’opera.
Quasi nessuno, tra codesti sovrintendenti e direttori artistici che vorrebbero cercare temi attuali per nuove opere (vedi un po’, il signor Schwarz avrebbe individuato nel calcio un tema d’attualità, in combutta coll’ENO nel 2022, odissea nell’ospizio), si arrischia a pensare che un teatro musicale attuale esisterebbe già e sarebbe il Musical. Il Musical, l’erede dell’opera come spettacolo popolare, che contende il trono al cinema, genere con cui s’innesta spesso mutuamente, perché da un Musical di successo poi se ne può fare un film e viceversa, dove i momenti cruciali vengono cantati, esattamente come fanno Violetta e Tosca, Radames e Nemorino, Orfeo e Arianna. Se si vuol modernizzare il teatro e far affluire pubblico, si commissionino Musical, che peraltro parlano un linguaggio assai più vicino al pubblico odierno, meno avvezzo alle rime baciate o interne dei libretti classici, che si esprimono con “alma grande e nobil core” o con “sento l’orma dei passi spietati”. Fu tentato, abbandonandosi pienamente alla tentazione e soddisfacendola, perfino Lucio Dalla, colla sua “attualizzazione” di Tosca (Amore disperato), sentendosi in dovere di spiegare poco tempo prima, ipse dixit in un’intervista rilasciata ad Alvise Sapori su La Repubblica nel lontano 2002, che Tosca era ” una puttana redenta dall’amore “, scambiandola distrattamente (?) per Violetta. Povera Tosca, burlata due volte. E povero Lucio Dalla, ignorante titolato che fu pure incaricato di regie d’opera dai soliti imbecilli legati alla politica che usano la stessa per promuovere gli ignoranti. E povero pubblico, a doversi sorbire codeste baggianate.
Non ci si può far nulla, i capolavori del passato quelli sono, non si possono cambiare. Ci provò timidamente anche Strehler cambiando, in un pur innocuo e tradizionalissimo allestimento di Così fan tutte al Teatro Strehler di Milano nel 1998 i versi in latino di Don Alfonso (Alexander Malta):
https://www.youtube.com/watch?v=i__GCfXJw8w
“finem lauda” (minuto 21.53 del video qui sopra) diventò “aspettate il finale” (e pure con inflessione napolitana, vista l’ambientazione partenopea: ascpettate) perché secondo lui, probabilmente, ormai il latino era una suppellettile da soffitta e si rischiava che il pubblico non capisse una frase così pregnante. E perdendo, naturalmente, la rima con “Il destin così defrauda“. Non vedo perché non tradurre integralmente l’opera di Da Ponte e Mozart in autentico idioma vesuviano: Comme ’nu scuoglio resta azzippunùtu càta ’o viento e ’a trupeja…
Ed ecco fatta l’attualizzazione. E si fanno agire i personaggi come se bighellonassero a Mergellina tra scugnizzi e passeggiatori di professione e per diletto. Zeffirelli avrebbe aggiunto il Vesuvio in eruzione, dieci pizzaioli ambulanti sparpagliati in ogni angolo del palcoscenico, forse anche della platea con autentica frittura per una versione in odorama, una tarantella di tanto in tanto, magari interrotta dalla processione del santo del quartiere, anche e soprattutto nei momenti di solitudine dei personaggi, perché non si poteva, nella sua visione iperdecorativa, lasciare sguarnita la scena. Naturalmente con tanti panni stesi sullo sfondo, che fa subito Napoli e che piace tanto agli stranieri imbevuti di neorealismo. Se invece vogliamo attualizzare lo spettacolo al Regio di Torino traduciamolo pure in piemontese e facciamo felici i madamin. Anche la Lega apprezzerebbe. Prima i piemontesi.
Mi piace immaginare Tristano e Isotta tradotto in milanese. Saprebbe assai di nouvelle scapillature, très nouvelle vague, quasi uno tsunami littérairethéâtralidiomatique di cui c’è proprio bisogno in un momento storico come questo, colle rivendicazioni in Europa dei sovranismi. Ci provò Cletto Arrighi, pseudonimo anagrammato di Carlo Righetti, vivace scapigliato milanese che tradusse nel dialetto meneghino nientemeno che La signora delle camelie di Dumas: La sciura di cameli (1884). Il poveretto, come Margherita Gauthier, morì solo e dimenticato da tutti nel 1906: La borla giò, morta.
Il nostro esuberante (inutilmente e ormai rancidamente) attuale ministro dell’interno, un tempo così attento alle radici “culturali” del Nord Italia (ampolle del Po, riti celtici, va’ pensieri, ecc.) potrebbe cogliere lo spunto e proporre una legge per tradurre tutte le opere liriche nei teatri settentrionali in dialetto locale. O almeno i sottotitoli in milanese alla Scala, in veneziano alla Fenice, in veronese all’Arena, altro che inglese! L’inglese, tsè, che tra poco diventerà anche una lingua minoritaria dell’UE, parlata unicamente nella verde Irlanda, e manco dappertutto, vista la fuga della perfida Albione verso non si sa quali oscure destinazioni. Viva l’Italia e la Lega Nerd.
Tornando al nostro freschissimo e teutonico sovrintendente con delle idee, sembra che colui voglia portare a teatro anche quelli a cui il teatro non interessa. Ma perché? Se non interessa non interessa… A me, per esempio, il calcio me fait chier (fa cacare, in traduzione italiana, ma detto in francese sembra sempre qualcosa di prelibato, come una crêpe suzette). Il fascino di una doppia dozzina di giovanotti superpagati, seppur piacenti e pure sexy, dieux du stade, ma spesso con sguardo troppo bovino, che corrono dietro a una palla maltrattandola, anche se pare che il 99% degli italiani non sappia vivere senza, a me proprio non mi dice. Mi rassegno alle masse che evidentemente hanno abrogato il cervello, visto che mostrano di apprezzare colla stessa foga e collo stesso tifo anche le sparate impresentabili del suddetto ministro (e prima di lui, quelle del signor B. ex-cavaliere senza cavallo, dei pinocchi del Valdarno e di tutta una serie di bugiardi professionisti). Ecco, a me il calcio proprio non interessa. Perché mai dovrebbero coattamente portarmi allo stadio a vedere una partita? Sarebbe un bel dispetto. La stessa cosa vale per chi dal teatro non è attratto. Signore teutonico, quali strane idee ha in mente, perché fare una tal violenza su menti non interessate al teatro? In Italia fare pure un’opera sul calcio? Ma perché mai dovrebbe portare un pubblico di hooligans al Regio di Torino? Col rischio poi che una pallonata sfugga dal palcoscenico a un cantante magari poco pratico e prenda in viso una madamin curiosa, tutta ingioiellata e impellicciata in prima fila, se non addirittura il direttore d’orchestra o il timpanista con gran fragore di piatti e di tamburi (e inevitabile interruzione dell’opera con sirene d’ambulanza)? Oppure che i tifosi, a parte le moleste ole improvvise, accompagnate da trombe del giudizio ad aria compressa, distruggano il teatro visto che ogni volta che ne passa una schiera, ovunque, non cresce più l’erba come usavano fare le orde di Attila (anche qui, forse, l’ambulanza potrebbe intervenire)? Remember, memento, erinnern! gli amabili ed educatissimi olandesini e la Barcaccia appena restaurata e subito guastata. It happened in Rome. Sovrintendente, forse in Germania, patria compiaciuta del pessimo gusto degli allestimenti operistici (e non solo) tutto ciò sarebbe normale. Perché vuol cercare di rinnovare il nostro pur vetusto ma forse ancora un po’ elegante paese? Ci lasci almeno una Carmen colle nacchere o una Suor Angelica dove ci sono realmente delle suore finte e non delle altrettanto finte prigioniere islamiche in burqa, solo per il piacere di épater les bourgeois. Quel tempo è ormai fuori tempo se mai è stato a tempo e meno che mai a tempo di musica. Proponga le sue idee a Salisburgo, a Monaco, a Berlino, dove sono sicuramente più disponibili ad accettare simili avanguardie e a metterle nel giusto risalto. C’è anche un bel pubblico a cui piacciono, con un turismo specifico. L’Italia è ancora la Bella Italia (amate sponde), nonostante gli attacchi esterni ma soprattutto interni. Le lasci l’unica cosa che le rimane, dopo i plurimi attentati: restare almeno una bella cartolina illustrata. L’opera sul calcio la lasci ai poveri inglesi che tra pochissimo non avranno che quello.
© 2019 Massimo Crispi
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