Beni culturali
Venezia, la lotta di una città per sfuggire alla mummificazione turistica
VENEZIA – Gremito com’è di turisti che salgono e scendono, che si fermano a guardare le vetrine o a scattarsi selfie, che si assiepano dietro le balaustre in pietra d’Istria per ammirare il Canal Grande in tutta la sua gloria, il Ponte di Rialto non ha l’aria di un’opera di altissima ingegneria. Eppure quando fu costruito, alla fine del XVI secolo, fece scalpore. Il vicentino Vincenzo Scamozzi, architetto di fama, predisse che sarebbe crollato. Così non è stato, per fortuna.
A pochi passi dal ponte, il Fondaco dei tedeschi è oggi un centro commerciale di alta gamma. Ma agli inizi del XVI secolo era il fulcro dei traffici tedeschi a sud delle Alpi: mercanti da Augusta, Norimberga, Colonia e altre città germaniche affollavano la città veneta comprando spezie, vini, vetro e sete per il nord, vendendo fustagni, attrezzi di rame, stagno. Naturalmente i tedeschi sono di casa a Venedig anche nell’anno 2019. Ma sono turisti, non mercanti. Girano per le calli scattando foto, mangiano linguine allo scoglio nei ristoranti, si concedono qualche birra, ripartono verso Jesolo o Caorle (o verso il prossimo porto, se sono in crociera).
E poi americani, francesi, cinesi, giapponesi, russi. Nel corso di questo reportage, chi scrive si è imbattuta in turisti danesi, israeliani, messicani e sauditi. Persino in una studentessa di architettura di Taiwan, ansiosa di ammirare l’Arsenale, ma incerta sulla direzione da prendere. La città che ha inventato il capitalismo è assediata da uno dei fenomeni che più contraddistinguono il capitalismo contemporaneo: l’overtourism.
Il mercato di Rialto è deserto. Niente di che stupirsi, dato che è domenica. Tra i banchi vuoti si aggirano i piccioni, e alcuni turisti che scattano foto. C’è solo un ragazzo del Bangladesh, che vende frutta e dolciumi. «Venezia è bellissima, ma si sente la crisi» dice con aria affranta. Gabriella Giaretta, presidente del comitato Rialto Novo, è ancor più pessimista. «Il mercato di Rialto purtroppo ha perso gran parte del suo significato. Io appartengo a una famiglia di commercianti di Rialto, e ne ho visto i mutamenti, anche merceologici. Mio padre e mio nonno avevano negozi di formaggi, e tre botteghe in Ruga degli Orefici, dove adesso si vende quasi solo bigiotteria».
Allora, ricorda, «la vita era a Rialto, il mercato della frutta e della verdura era potente; gli zii di mio padre, giunti dal padovano, avevano una trattoria, che esiste ancora, e che continua a fare buoni affari (ce l’hanno i cugini di mio padre). I negozi di formaggi si sono trasformati in alimentari, ma dagli anni ’60 è cominciato il cambiamento. Si sono trasformati in negozi di piccolo abbigliamento, borse, per seguire le tendenze dei clienti».
Quando può Giaretta lascia Venezia e va in Francia, dove ha famiglia. «Mi sento privata delle mie origini. Domina il turismo di massa, e molti visitatori (ad esempio quelli che scendono dalle grandi navi) restano qualche ora, non lasciano soldi alla città, e ci portano la confusione, il depauperamento di tutto, e sempre più immondizia».
Le grandi navi. Percorrendo le calli si intravede qualche striscione di protesta, qualche cartello critico. Pochi però. Sono molti di più i tricolori, e soprattutto i vessilli con il leone di San Marco. Giulio è anziano, e in pensione. Fiero della sua venezianità. A Gli Stati Generali dice: «Io sono veneziano. Non veneto: veneziano, scriva. L’autonomia la devono dare a Venezia, che fa storia a parte, e ha più problemi di tutti».
Sulle grandi navi Giulio è piuttosto tranchant: «Roba da matti. Bisogna bloccare tutto subito, ma lo faranno solo dopo qualche catastrofe». Anche Marianna, quarantenne attiva nel settore del turismo, è preoccupata per il futuro della città: «Venezia sta diventando invivibile. Non si tratta soltanto delle grandi navi, dei turisti che sporcano e non rispettano niente, dei prezzi esagerati degli immobili; è tutto l’insieme». Nella classifica della qualità della vita 2018 del Sole 24 Ore, la provincia di Venezia è al 34° posto in Italia. Molto lontana da altre province venete come Belluno (quarta), Treviso (nona), Verona (tredicesima), Vicenza (diciassettesima). Pure Padova la precede, di un piazzamento.
«Una città che si iper-specializza in un’unica funzione fatica ad essere sostenibile dal punto di vista sociale, economico e ambientale – osserva Laura Fregolent, docente di tecnica e di pianificazione urbanistica dell’Università IUAV –. In questa città la funziona turistica è ormai sovrabbondante. È per questo che prima di pensare alla creazione di spazi nuovi, servirebbe ricostruire quelle caratteristiche di urbanità che la città ha perso».
Come? «Ad esempio, rimettendo al centro le politiche abitative, investendo sull’attrazione in città storica di nuovi abitanti, magari partendo dalla popolazione più giovane, giovani coppie, famiglie, single. In un Paese in emergenza abitativa, in una città in emergenza, una politica abitativa a forte guida pubblica, co-gestita dal livello locale, regionale e nazionale assieme, potrebbe risolvere in un solo momento due questioni urgenti».
Per chi è “foresto” e lavora (o studia), vivere a Venezia non è facile. Gli Stati Generali hanno parlato con studenti e lavoratori “sfrattati” dai loro appartamenti in affitto per il carnevale, o per altri periodi molto intensi dal punto di vista turistico. Si stima che gli alloggi veneziani a disposizione degli utenti di piattaforme di hospitality siano quasi diecimila. Ma i cittadini di Venezia non demordono, e cercano nuovi percorsi per “riconquistare” una città che, nella sua millenaria storia, fu conquistata solo dal genio di Napoleone.
Giaretta, ad esempio, racconta dell’associazione (anch’essa chiamata Rialto Novo) fondata per riattivare la pescheria di Rialto. «Abbiamo elaborato un progetto che prevede la creazione di piccoli stand di street food, in modo che i pescivendoli (che dai diciotto di un tempo sono ormai solo sei) possano anche vendere cibo già preparato. E adesso vogliamo lavorare pure per i fruttivendoli, perché anche in quel settore ci sono moltissimi banchi vuoti, tanti di quelli che aprono sono per i turisti».
In realtà sono parecchie le organizzazioni attive per il rilancio della città lagunare. Una di queste è la Fondazione di Venezia. Quello del turismo, dice Giampietro Brunello, presidente della fondazione, è «un tema complesso e articolato, che riguarda il presente e soprattutto il futuro di Venezia. Ma quando si affrontano tematiche come queste non si può prescindere dalla fase di analisi che serve ad avere il quadro preciso della situazione. Per questo abbiamo fortemente voluto una ricerca sul turismo in grado di mettere sotto la lente di ingrandimento i flussi, i diversi profili dei turisti, le dinamiche socio-economiche eccetera. Un lavoro realizzato in collaborazione con le università, e che metteremo a disposizione degli stakeholder del territorio».
Sapere è potere, insomma. In effetti la mappatura dei flussi e dei profili turistici è essenziale, una condicio sine qua non per seguire l’esempio di città come Amsterdam, Copenaghen o Bruges, che negli ultimi anni hanno varato politiche in grado di gestire, con un certo successo, l’overtourism. Nell’era dei big data e del marketing personalizzato, si tratta di percorsi che non si possono eludere. “Dirottare” gruppi turistici su un sestiere piuttosto che su un altro, far conoscere a una certa categoria di visitatori un evento minore ma per loro di grande interesse, segnalare le zone dove la presenza di turisti è sopra il livello di guardia, significa non soltanto rendere Venezia più fruibile ai veneziani, ma anche migliorare l’esperienza del turista stesso.
Elena Ostanel, docente del Dipartimento di design e pianificazione in ambienti complessi della IUAV, è chiara: «Venezia cambia rapidamente, perde popolazione di anno in anno, è sempre più investita da flussi turistici mordi e fuggi. Sono recenti alcune sperimentazioni di appropriazione di spazi a Venezia». La studiosa cita il caso dell’Associazione Poveglia per tutti, che mobilitando migliaia di cittadini è riuscita a impedire la privatizzazione dell’isola di Poveglia, di fronte a Malamocco. Impedendo che l’isola (un fazzoletto verde per secoli usato dai pescatori) diventasse l’ennesimo hotel di lusso aperto a pochi.
Ma poi osserva: «Bisogna chiedersi quante altre di queste iniziative esisteranno in futuro in assenza di politiche che mirano a rilanciare le altre funzioni di Venezia oltre a quella turistica. La domanda che mi porrei è quindi “di chi è oggi Venezia? È davvero nella disponibilità dei suoi abitanti? Ci si può prendere cura di un luogo quando non lo si sente più proprio?”»
Quelle di Ostanel sono domande complesse, che richiederebbero articoli ben più lunghi e approfonditi. Per Valeria, commessa, oggi Venezia appartiene «a chi ha i soldi». Secondo un barista che preferisce non identificarsi, domani sarà «dei cinesi, che si stanno comprando tutto, e dei bengalesi, che fanno tutto». Ma si tratta di una spiegazione a dir poco semplicistica; più adatta ad alimentare la solita guerra tra poveri, che a risolvere i problemi. La borsetta venduta a prezzi stracciati dal commerciante del Sichuan, o la fetta di pizza servita alle due di notte dal ragazzino del Bangladesh sono la conseguenza, non certo la causa, della “turistificazione”.
«Venezia è di fronte a un bivio – dice Luana Zanella, fino al dicembre 2018 co-portavoce dei Verdi, ex deputata e assessora alla cultura di una giunta Cacciari –. O continua a percorrere la via disastrosa della monocultura turistica che sta stravolgendo la vita della città (estendendo perfino alla terraferma i suoi effetti devastanti); o imbocca la via di un radicale mutamento di prospettiva, trasformando la propria fragilità e preziosità in leve per ripensare e reimpostare il proprio futuro, nel rispetto del patrimonio inestimabile ereditato, e degli abitanti, ormai poche decine di migliaia a fronte di trenta milioni di turisti».
Che Venezia sia un tesoro fragile è innegabile. Anche in senso demografico. È da anni che i giornali locali parlano di un centro storico che “muore”, con sempre meno residenti (nel 2017 scendevano sotto i 54mila, nel 2019 sotto i 53mila). Gode di una maggior salute demografica Mestre, che da anni, a colpi di referendum consultivi, cerca di diventare comune autonomo. «Noi mestrini siamo stufi – dice un negoziante del centro storico di Mestre –. Perché i nostri soldi devono essere spesi per mantenere i veneziani? È stato il fascio ad annetterci a Venezia; dato che siamo in una democrazia, voltiamo pagina». Sul web i sostenitori della “secessione” da Venezia citano il caso di Cavallino Treporti: sino al 1999 circoscrizione di Venezia, e oggi comune a se stante in grande spolvero.
In ogni caso, l’economia della Venezia insulare è in salute. Anzi, è fiorente. Lo dice Fabrizio Panozzo, professore di economia aziendale alla Ca’ Foscari: «C’è una situazione di piena occupazione e ricchezza diffusa, sostenuta da una continua innovazione imprenditoriale. Si tratta però di uno sviluppo quasi integralmente fondato sull’economia del turismo di massa, che se da un lato continua a garantire imponenti flussi di reddito, dall’altro minaccia di non essere più sostenibile. Da qui le sempre più pressanti richieste di regolare il mercato turistico e le proposte di modelli di economia urbana più varia e sostenibile».
Ironia della storia, cinquecento anni fa Venezia era il maggior centro manifatturiero d’Europa, e un hub culturale e scientifico di grandissimo rilievo. Una città di capitalisti, liberi pensatori, tipografi, artisti. Ma se l’anima artistica di Venezia resiste vigorosa da decenni, con la tenacia propria dell’arte (e ne è la prova non solo la Biennale, ma un’effervescenza diffusa di pittori, designer, scrittori, poeti, registi, creativi di ogni genere, lingua ed età), e l’anima culturale è ben radicata (si pensi solo all’editore Marsilio), l’anima scientifica sta iniziando a vivere una seconda primavera.
Non si tratta solo delle due università, Ca’ Foscari e IUAV, che attirano studenti da tutta Italia. Sono stati messi in cantiere progetti come la Science Gallery Venice, e sono una cinquantina le startup innovative con sede nel comune di Venezia: una trentina nella Venezia insulare, e il resto in “terraferma”, ossia a Mestre, Chirignago ecc. Una di queste è VeNice, fondata da Michela Signoretto, professoressa associata di chimica industriale alla Ca’ Foscari. La startup sviluppa formulati naturali e innovativi per la cosmesi, un settore in espansione in tutto il mondo.
«La nostra sede operativa è al campus scientifico della Ca’ Foscari a Mestre – dice la Signoretto – Si tratta di una struttura all’avanguardia che rappresenta per noi un’ottima base operativa e un eccellente biglietto da visita. La sede è facilmente raggiungibile, ed è ben collegata alla stazione dei treni e all’aeroporto di Tessera. Direi quindi che fare startup a Venezia non solo ci caratterizza, ma in diversi casi ci ha facilitato nei contatti con partner e potenziali clienti».
Ma scienza e innovazione non possono bastare, almeno nel breve periodo. Serve – lo dicono tutti gli imprenditori sentiti da Gli Stati Generali – un maggior sostegno al manifatturiero. «Il governo precedente, con Calenda, aveva lanciato un piano per l’Industria 4.0 molto buono – dice un imprenditore che non vuole assolutamente rendere noti nome e cognome – Il Mise sotto Di Maio ha fatto molto poco. Il punto è sostenere le PMI 4.0 veneziane, e di tutta Italia, perché possiamo farcela solo (e a stento) come sistema-paese».
Nel XVI secolo l’Arsenale di Venezia era il più importante complesso militar-industriale di tutta Europa. Si estendeva per oltre 25 ettari, e dava lavoro a più di duemila persone tra operai e artigiani; dignitari stranieri restavano a bocca aperta di fronte alla perizia delle maestranze locali. Oggi l’Arsenale è un polo dove hanno sede istituzioni, il CNR, la Marina Militare, e le galee costruite in tempi record sono solo un ricordo. Qui c’è anche la Biennale, e quest’anno si è tenuto, per la prima volta, il Salone Nautico.
Se la Venezia insulare si concentra sui servizi – anche avanzati –, la Terraferma continua a essere ricca di aziende manifatturiere: attive per esempio nella meccanica, nell’automotive, nella green economy, nell’impiantistica e via discorrendo. Lo ricorda Vincenzo Marinese, presidente di Confindustria Venezia Rovigo. «Il Pil di Venezia, quest’anno, si attesta sui 44 miliardi di euro. Le nostre prime 500 aziende hanno un fatturato di 28 miliardi di euro complessivi, al netto delle grandi imprese. Cresciamo di oltre l’8%, e crescono pure gli utili di queste aziende. Sono dati molto importanti, specie se si tiene conto che l’intero Friuli-Venezia Giulia ha un Pil di 32 miliardi di euro». Una città (meglio: una provincia) che vale, dunque, quanto una regione.
Fondamentale, per Marinese, è che anche nel veneziano si crei una Zona Economica Speciale (ZES), come è stato già previsto dal governo per due aree del Mezzogiorno. La ZES in salsa veneziana dovrebbe includere anche Murano, «per dare valore all’isola e alla riqualificazione della stessa, e per evitare che si perdano ulteriori competenze. La ZES consentirebbe alle aziende di Murano (o che vi si vogliano insediare), di avere dei crediti d’imposta importanti sugli investimenti. Ottenuta la ZES, gli imprenditori di Murano dovrebbero fare un passo in avanti e giocare in attacco a livello internazionale, puntando su marchio e reti commerciali».
A Piazza San Marco una docente allampanata racconta a un gruppetto di studenti americani le glorie di Venezia. «Per secoli questa città è stata un crocevia di commerci e di culture. Ebrei, armeni, tedeschi, arabi, olandesi venivano qui a fare business». Alcuni ragazzi ascoltano, altri sono impegnati a chattare o a scattare fotografie. Il passato non si ripeterà, Venezia non potrà mai tornare agli antichi fasti. Ma allentare la morsa dell’overtourism, quello senz’altro sì. Purché lo si voglia.
Immagini: V. Saini
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