Beni culturali

Tsipras, i vandali olandesi, De Gregori e la responsabilità collettiva

3 Marzo 2015

C’è un filo conduttore che unisce in maniera subliminale la gran parte dei dibattiti che nascono e muoiono nell’arco di 48 ore in Italia: la responsabilità.
Se infatti è quasi impossibile provare e punire la responsabilità del singolo, è forse ancora più difficile accreditare la responsabilità che deriva dal far parte di una aggregazione di uomini, idee o interessi.

 

Emblematico il caso della Grecia. Chi avrebbe voluto vedere Tsipras piegare al proprio utopistico programma elettorale il continente europeo diceva: “Ma i greci, ridotti alla fame, che colpa ne hanno?”. La fitta maglia del chiacchiericcio nazionale è del tutto impermeabile all’idea (ovvia, secolare, ineludibile) che un popolo ha, sempre, la responsabilità collettiva delle azioni delle classi dirigenti passate, presenti e future che esprime. E qui non si vuole banalizzare la questione poggiando sulla constatazione, peraltro quasi sempre vera, che una classe dirigente non banchetta mai senza lasciare gli avanzi ai cittadini. La responsabilità deriva dalla semplice fondazione di una nazione. Quando uno stato nasce pone in essere una responsabilità che non è la semplice somma delle responsabilità individuali, è la responsabilità nazionale. E la si eredita con la sola cittadinanza. Che colpa ha la mia generazione per il debito pubblico creato con le pensioni retributive delle generazioni che la hanno preceduta? Che colpa ha avuto chi come me non ha mai votato Berlusconi per il deterioramento che è stato fato dell’immagine dell’Italia con comportamenti degni di una vecchia pellicola di Alvaro Vitali (le corna nella foto di gruppo!)?

 

Nessuna colpa. Ma tutta la responsabilità. La responsabilità collettiva.

 

E la politica non può che essere la naturale interprete di questa de-responsabilizzazione collettiva. Così è possibile che un leader indipendentista del Nord faccia una manifestazione a Roma accogliendo a braccia aperte le croci celtiche e il saluto romano di Casapound. In fondo che vuoi che capiti? Non vorranno mica dare la colpa a me che cazzeggio con le felpe se le cose dovessero degenerare! E’ possibile che Sel eserciti un cieco massimalismo di comodo all’ombra del Pd in fiore, certa di essere nuovamente ospitata in lista al prossimo appuntamento elettorale. E’ possibile che Grillo dia spazio a qualsiasi suggestione complottista venga dal proprio movimento politico, senza rendersi conto della responsabilità di aver privato il paese della ragione e dei suoi derivati (ragionevolezza, senso della misura, capacità di contestualizzare, logica matematica, pertinenza, principio causa-effetto) dopo che Berlusconi lo aveva già privato della lingua italiana e della bellezza.

 

Rapiti da decenni di benessere e tenuta sociale, liberi di poter criticare aspramente il consumismo (ma solo a patto di aver già consumato), ci siamo illusi che la storia non venisse mai più a chiedere il conto. Che a dispetto della canzone di De Gregori, la storia non siamo noi. La storia non sono io. La storia, semmai, sono loro!

 

Abbiamo delegato a un’entità statale astratta la gestione del nostro vivere insieme e le abbiamo attribuito dei poteri sovrumani.
E’ per questo che rimaniamo attoniti all’idea che dei tifosi ubriachi possano scalfire la fontana della Barcaccia del Bernini. Ma come? I nostri monumenti non sono costantemente protetti? Il pensiero va veloce, spinto dalla leva dello scandalo, non ha tempo di far di conto e chiedersi quanto costerebbe proteggere da un banale pennarello molesto l’immenso patrimonio artistico nazionale. Vince lo stupore. Non è la Barcaccia che si scheggia, è la nostra infantile fede in un benessere creato chissà da chi, mantenuto vivo da altri che non siamo noi, governato da leggi che non abbiamo saputo chiedere ai nostri eletti.

 

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