Beni culturali

Trovata una sega!

8 Febbraio 2017

Con questo titolo il Vernacoliere commentava nel 1984 lo spreco di tempo e denaro generato dalla spasmodica ricerca di quelle famose “teste di Modigliani” che una leggenda voleva fossero state gettate nei fossi – dallo stesso artista – nel corso di una serata colma di rabbia del lontano 1909. Era il 1984, si diceva: dunque il centenario della nascita dell’artista livornese. Il Museo Progressivo di Arte Moderna di Livorno aveva deciso di allestire una mostra.
“La cura del progetto [venne] affidata alla conservatrice del museo, Vera Durbè, con la collaborazione del fratello Dario, sovrintendente alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Per arricchire la mostra, inizialmente un po’ scarna e snobbata dalla critica (delle 26 sculture modiglianesche, ne erano arrivate a Livorno solo quattro), i due [decisero] di utilizzare delle scavatrici per perlustrare il Fosso Mediceo” [fonte, e per approfondire, http://www.instoria.it/home/teste_modigliani.htm]. Com’è noto, finalmente a un certo punto furono effettivamente rinvenute tre teste, prese per vere praticamente da tutti, curatori e critici d’arte compresi; equivoco che si protrasse fino a quando non si scoprì che una delle teste era stata realizzata da tre giovani studenti livornesi, e le altre due da un portuale, artista di discreto talento ed ex militante di Azione Rivoluzionaria. Insomma uno scherzo più che riuscito, come ha ricordato ancora pochi anni fa Matteo Pucciarelli per “La Repubblica” [http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/07/25/news/trent_anni_fa_ide_la_beffa_delle_teste_di_modigliani_ora_fa_il_medico_anticancro_quella_storia_una_metafora_della_vita-92335313/?refresh_ce].
Quello dei falsi nell’arte in generale, dei falsi quadri in particolare e di tutti quei romanzi che si avventurano nel campo artistico attraverso personaggi che producono falsi è, per quanto fuorviante, solo uno degli interessantissimi temi toccati da Roberto Pinto in Artisti di carta. Territori di confine tra arte e letteratura [Postmedia books, Milano, 2016]. Per quanto caro alla letteratura, avverte l’autore, il tema del falso andrebbe infatti riformulato alla luce delle tematiche e delle pratiche elaborate dalla disciplina nell’ultimo secolo, con l’artista che sempre più spesso segue la fattura dell’opera dopo averla ideata ma la delega alle produzioni industriali o a maestranze specializzate. È vero, insomma, che non si comprano opere d’arte bensì si finanzia la ricerca condotta dagli operatori artistici. Il tema, tuttavia, è appunto il falso come polo di attrazione principale per tutti quegli scrittori che volgono la propria attenzione verso il mondo dell’arte. Pinto la analizza, questa attenzione che la letteratura ha rivolto all’arte nel corso degli ultimi decenni, e lo fa col fine esplicito di “riflettere sui territori di confine e sugli stretti rapporti che hanno intrecciato in più occasioni le due arti sorelle”. È attraverso i romanzi, di nuovo, che individua una chance nuova e diversa d’interrogarsi sul ruolo che l’arte ricopre in questa nostra società, una società che sempre più si caratterizza come una “società delle immagini”: un tentativo di riflessione che prescinde “da ciò che pensano artisti, critici, storici dell’arte e tutti coloro che si dedicano professionalmente a tale disciplina”.
Fra gli autori e gli artisti che in questa prospettiva vengono approfonditi, un capitolo è dedicato a Don DeLillo, certo uno dei più prolifici in tal senso; un altro capitolo a Sophie Calle; appaiono infine Siri Hustvedt e naturalmente Orhan Pamuk. Il caso di Sophie Calle risulta particolarmente interessante, intanto per l’abitudine dell’artista francese di affiancare dei testi alle sue creazioni, insomma le narrazioni alle immagini, e poi – nell’altra direzione – per le interazioni ch’ella ha avuto, per esempio, con Paul Auster ed Enrique Vila-Matas (peraltro, un bellissimo disegno dello scrittore spagnolo è riprodotto nella copertina di questo volume). Collaborazioni in cui “l’artista ha alimentato l’intreccio tra i due campi espressivi” costruendo opere a partire dai suggerimenti ricevuti dagli scrittori. Lavori, come si scrive nel libro, più o meno orchestrati a quattro mani e nei quali è difficile definire dove si collochi il confine tra il contributo dell’uno e quello dell’altro, il contributo dell’artista e quello dello scrittore.
Si tratta probabilmente – almeno agli occhi di chi con la scrittura (e con la lettura) usualmente lavora ma in compenso non ha nessuna particolare competenza nel campo dell’arte – del capitolo più interessante e incisivo di tutto il volume; pagine in cui Pinto riesce a comunicare nel modo più efficace il senso della propria ricerca, coinvolgendo il lettore in una interessante esplorazione, in effetti, della potenza – anche gnoseologica e comunque creativa – di questo scambio conturbante che avviene fra l’artista e il narratore nella vita reale, e fra l’artista e il narratore sulla carta e nei libri. Un capitolo, un libro e un’esplorazione di estremo interesse, dunque, in cui manca completamente il panorama italiano. I nostri scrittori – con l’eccezione forse di Tiziano Scarpa, che però pare un caso profondamente isolato e incapace di formare una scuola – sembrano completamente insensibili al richiamo dell’arte, nonostante gli artisti sembrino al contrario interessati a quanto gli scrittori costantemente producono. Ciò che descrive lo “stato dell’arte” in Italia.

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