Beni culturali
Tesoro, ci siamo persi la forma (ed è un problema di sostanza)
Senza accorgercene, per la prima volta dopo un secolo di storia del design e dell’architettura narrabile attraverso la successione di movimenti linguisticamente ed esteticamente connotati, l’Italia vive in un periodo di assenza di stili. Del classicismo, del modernismo, del postmodern, del minimalismo, nei primi anni anni del Duemila abbiamo ereditato una specie di paciugo laico e asintomatico, che si è provato a definire “eclettismo”. Mi chiedono spesso come dovremmo battezzare allora, dal punto di vista stilistico, questo periodo storico nell’ambito della cultura materiale degli anni Dieci – i nomi, le etichette, per quanto antipatiche e riduttive, evidentemente servono la narrazione – allora io credo che potremmo tentare la definizione di “amorfismo”. Impiego volontariamente un termine che ha un’accezione negativa: “informale” poteva essere un’alternativa ma avrebbe avuto una declinazione di assunzione attiva, selettiva, mentre “amorfo”, informe, senza carattere, dà più l’idea di una condizione in qualche modo subita, dove l’assenza di forma non è un punto di arrivo, o di superamento, ma causa e conseguenza di una negligenza, di un atto mancato. È la prima volta che provo a sostenere questa posizione, quindi abbiate pazienza perché non ha ancora superato lo stress test di tutti quelli che legittimamente dovranno rivendicare un’identità linguistica, un sovranismo estetico, previa capitolare. Perché è vero: se si perde la forma, si perde.
Il tema della forma e lo smarrimento della sua centralità è naturale conseguenza da una parte della reazione all’eccessiva estetizzazione della fine del secolo scorso incolpata di aver svuotato i contenuti, dall’altra di una liberazione dall’egemonia culturale che ogni linguaggio porta con sé. Abbiamo pensato di poter essere sufficientemente solidi e maturi e liberi per affrancarci dalle forme, dagli stili. Abbiamo pensato di poter essere sufficientemente solidi e maturi e liberi per non dover farci scegliere da una forma, imposta dalle mode e dai tempi, ma per scegliere noi un giorno per l’altro, mischiando, creolizzando, ibridando e, per altro, sempre e comunque attingendo da estetiche di altri tempi: per forza, il nostro, di tempo, non ne ha di proprie. Abbiamo pensato che le forme, i formalismi, erano troppe e che il sogno di tutti quelli che invocano una società digitale e un design dell’immateriale ci avrebbe liberato da un precipitato formale a tutti i costi, che potevamo fare a meno della forma. E invece non solo non è così – e proprio mentre si tende alla dematerializzazione, le forme diventano sempre più centrali – ma le cose stesse evidentemente non possono farne a meno, la società non può: la condizione dell’amorfo, come non scelta, in realtà non porta alla non forma –– ma a una forma non controllata, subita, trascurata a tal punto che non abbiamo neanche un nome per definirla. Forse, in questo, l’architettura se la cava meglio; il cinema benino; della moda non so abbastanza per dire; ma il sistema della cultura materiale che ci fa da sfondo, se abdica a occuparsi di forme e di eleggere dei segni per farlo, ha esaurito la sua carica intimamente innovatrice, simbolica e politica.
Anche laddove si dà importanza alle forme, vige la confusione, la nostalgia, l’anacronismo, la casualità, tanto è il bisogno. Sono la prima a subire la seduzione di certe epoche linguistiche: mi appassiona tanto il lato surrealista del modernismo quanto quello pop del postmodernismo, il populismo delle avanguardie quanto le contraddizioni del design democratico; potrei trovare altrettanto interessante vivere nella casa di Salvador di “Amor Y Gloria” quanto nella villa liberty neopompeiana in cui presta servizio “Lazzaro felice”. Oppure pensiamo agli aeroporti e ai centri commerciali, dove personalmente invece non vivrei, ma dove un sacco di persone abitano le proprie giornate: erano “non luoghi”, oggi sono il “tutti i luoghi”. Quando le forme sono forti, come nei casi citati, possono anche slabbrarsi, possono accogliere l’opposto, creare resistenza, ripugnanza, dolore, euforia, soffocamento. Gli stili stessi, storicamente, si sono succeduti per reazione contraria. Quindi cosa verrà dopo la dissolvenza delle forme, modali, verbali, temporali? Tornerà l’austerità, “la cartolina della bella Otero alle “specchiere? O semplicemente si affermerà la forma che prende più voti, l’unica che passa lo schermo? “Chi parla male pensa male” e chi non si interessa di come parla perché ha immolato il come sull’altare dei cosa, come pensa?
Mi ricordo abbastanza bene la calza di Berlusconi, ho perfettamente in mente la libreria alle sue spalle, di come le foto dei bambini piccoli nelle cornici d’argento hanno lasciato il posto a quelle dei matrimoni, delle lauree, dei nipoti. E mi ricorderò naturalmente, come tutti complice di averne dato fin troppo risalto, la scaffalatura esibita durante gli ultimi exit poll dietro Matteo Salvini con l’accozzaglia più volte elencata di cattive cose di pessimo gusto. Non mi interessa tanto l’aspetto picaresco, buono per un pezzo di costume più o meno ironico, mi interessa la fenomenologia del pubblico che è passato dal premiare una forma aspirazionale (è come vorrei essere io) a una cosale (è come sono io), e mi interessa che fine ha fatto quella ideale (è migliore di me), con che malinteso o imbroglio si è scollata dallo sfondo dei come, perdendo la sua presa sulla gente. Mi interessa ricordarvi che la forma (anche la più perversa e disturbante in alcuni casi), la forma quanto più è forte più vince, che se non bastessero i risultati politici, basterebbe guardare i vostri profili instagram per confermarlo: abbiamo bisogno di uno stile, in cui riconoscerci o da cui prendere le distanze o anche in cui riconoscerci per prendere le distanze o in cui non riconoscerci affatto. Questo non è cambiato in cento anni. Parafrasando Galileo in Brecht, “beato quel popolo che non ha bisogno di forma”. Ecco, noi quella avevamo e non siamo ancora così beati da poterne far a meno. Ma proprio per niente.
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