Beni culturali
Teatro dei Venti, e ora costruiamo una nuova agorà
“Il mare nero si gonfiava senza posa, come se le sue grandi maree fossero la sua coscienza. E la grande anima del mondo sentisse angoscia e rimorso del lungo peccato e del dolore che aveva causato”.Herman Melville nel “Moby Dick” descrive l’approssimarsi del veliero Pequod al Capo di Buona Speranza, detto anche “Capo Tormentoso”. Parole che si adattano al mondo di adesso, quasi profetiche per la pandemia del Covid 19: un segnale che il limite allo sfruttamento della natura è stato raggiunto. E’ la Terra un pianeta sull’orlo del collasso? I teatranti sono tra i pochi ad avere la sensibilità per capire ciò che accade. Stefano Tè, regista del Teatro dei Venti che proprio l’anno scorso ha allestito l’opera di Melville osserva: “Abbiamo tralasciato le reali priorità. E la natura, come la balena, si scrolla di dosso con movimenti repentini e virulenti, i nostri piani, le nostre convinzioni. Dobbiamo quindi sperare in una riflessione generale in atto, che porti ad una rivisitazione delle reali necessità, dei ruoli e delle priorità, tralasciando ciò che serve unicamente ad alimentare un individualismo mascherato da libertà, una accelerazione patologica che ha compromesso il soffermarsi sulle cose. In questa trasformazione il teatro potrebbe avere un ruolo importante, ma deve essere in grado di rivoluzionarsi per tempo”.
La pandemia cambierà la società e le relazioni tra gli uomini. Cosa accadrà al teatro? Sarà possibile ritrovare il filo della ricerca e l’incontro con il pubblico?
“Spero sia in atto una rivisitazione delle priorità. Il nostro _ riflette Tè scegliendo le parole con cura _ è un ambiente che si è popolato nel tempo di personalità affette da narcisismo patologico, che lo hanno inquinato e compromesso definitivamente il rapporto tra persone e scena. A mio avviso il teatro così come lo abbiamo lasciato a fine febbraio di quest’anno era destinato comunque a morire. È necessario capire come può tornare ad essere un servizio utile alla società. Mettersi al servizio di una comunità sofferente. Accantonando, spero definitivamente, preconcetti sulle diverse tipologie e categorie, elaborando un sistema di produzione e circuito che collochi al centro la reale funzionepedagogica, celebrativa, sociale di questa arte”.
La situazione resta comunque difficile e le attuali limitazioni alla socialità danneggiano la condivisione. Come avete rimodulato il lavoro: dall’attore all’organizzatore?
“Gli attori del Teatro dei Venti hanno dato priorità all’allenamento individuale come lo studio e la creazione di materiali utili ai prossimi impegni. Ciascuno di loro ha trasformato la propria casa in teatro sostenendo in parallelo il lavoro organizzativo, adesso particolarmente concentrato nell’individuare percorsi strategici, proposte e soluzioni per superare la complessità del momento. Non sarà più consentito utilizzare i luoghi convenzionali, ma possiamo inventare alternative, magari utili alla società. I teatranti possono mettersi in prima linea nel periodo che sta per aprirsi. Ci sono competenze e sensibilità che possono essere sfruttate e adoperate nell’accompagnamento verso una nuova normalità. Così si può costruire un inedito ruolo per i teatranti. Un teatro ormai destinato a morire sta per essere seppellito. E’ ora quindi di immaginare altre modalità e spazi per l’attore dentro la società. A questo sta lavorando il comparto organizzativo della nostra compagnia, sostenuto e monitorato dal settore amministrativo”.
Sono giorni durissimi per i teatranti che stanno pagando tantissimo in termini di sopravvivenza. Cosa, in concreto, il Governo e il Ministero per la Cultura cosa possono fare per cambiare questo stato di cose?
“È fondamentale ricevere quanto prima linee guida che ci permettano di orientarci nella programmazione di attività da tenere in luoghi e modalità alternative, perché permetterci di lavorare è la soluzione primaria. È necessario un abbattimento drastico della burocrazia per ottenere i finanziamenti già assegnati. Serve una modalità leggera e rapida per mettere in campo degli interventi nella fase che sta per aprirsi. Credo sia più opportuno l’intervento del Governo a sostegno di azioni culturali e attività, concrete e necessarie in questo frangente storico, piuttosto che finanziamenti “a pioggia” o a fondo perduto”.
Maggio è da otto anni il mese di “Trasparenze”, festival apripista per la scena contemporanea nazionale. Un luogo dove scoprire novità in anteprima, work in progress e ospitalità internazionale. Con il Covid 19 la rinuncia al programma è stato un atto scontato. Quale era il disegno di “Abitare Utopie”, la rassegna che doveva svolgersi a Modena e dintorni dal 5 al 10 maggio con due tipologie di lavoro, il Carcere e il borgo di Gombola, sull’Appenino modenese, dove da qualche mese la compagnia gestisce con iniziative e laboratori l’Ostello Podesteria del paese?
“Come ogni edizione di “Trasparenze”, anche questa era stata ideata per mettere in atto trasformazioni, tracciare sentieri non ancora battuti e consentire incontri inediti. Dal 5 al 7 maggio avremmo realizzato il primo Festival del Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna. In programma un Forum sul Teatro in Carcere, con la partecipazione di oltre 250 ragazzi delle scuole superiori, gli spettacoli e le dimostrazioni di lavoro delle realtà che aderiscono al Coordinamento, un seminario all’interno di “Sognalib(e)ro”, progetto nazionale inerente la lettura e la scrittura, con il sostegno di Bper banca. Nelle tre giornate sarebbe andato in scena il primo studio di “Odissea”, nuovo lavoro del Teatro dei Venti all’interno di “Freeway”, in cui il gruppo è capofila di un progetto di scambio di pratiche tra quattro realtà europee che operano nei luoghi di pena. Il viaggio di Ulisse in un bus navetta che avrebbe condotto gli spettatori all’interno degli Istituti Penitenziari di Modena e Castelfranco Emilia. Un flusso poetico di quattro ore, senza i consueti controlli all’ingresso, favorendo così una drammatizzazione armoniosa, un attraversamento fluido delle diverse vicende dell’opera e dei luoghi della città, tra questi i luoghi di detenzione, che mutano in teatro e si mettono a servizio del teatro. Un progetto che è pratica dell’”Abitare Utopie”. Davvero un evento extra-ordinario, che aveva già ricevuto l’autorizzazione della Direzione e degli altri organi competenti, frutto della fiducia e del lavoro meticoloso svolto in tutti questi anni. Una parte di questo progetto si potrà svolgere comunque: il seminario di “Sognalib(e)ro” si terrà da remoto in questi giorni, coinvolgendo gli educatori delle 16 carceri italiane che vi aderiscono. Allo stesso modo, nelle settimane successive, si terrà il Forum con le scuole. L’altra sezione del festival, “Spettatori Residenti”, avrebbe abitato il borgo di Gombola per tre giornate, l’8-9-10 maggio. Seguendo il tema “Abitare Utopie” tutti gli spettatori avrebbero avuto la possibilità di diventare residenti, per trascorrere tre giornate insieme agli artisti e alla comunità del festival partecipando a spettacoli, concerti, escursioni e seminari nel borgo e lungo diversi sentieri. Strutture ricettive attrezzate e singoli cittadini si stavano organizzando per “aprire casa agli ospiti”, che sarebbero arrivati per partecipare a tre giornate di bellezza, riflessione e conoscenza del territorio. Oltre 200 posti letto erano stati messi a disposizione del festival, fino a quando non ci siamo dovuti fermare. Il doloroso momento di separazione che stiamo vivendo ci impone la necessità di mettere da parte il progetto “Abitare Utopie” e di programmare una serie di azioni concrete spalmate durante l’estate, di sostegno alla comunità ferita. Renderci utili in questo tempo incerto, tramite le professionalità maturata negli anni nel campo della relazione”.
Una delle ferite, qualche giorno prima del lockdown, è stata la rivolta e il decesso di nove reclusi all’interno della casa circondariale di Modena, la struttura dove il Teatro dei Venti opera da anni.
“La rivolta dell’8 marzo nel penitenziario di Modena ha lasciato un segno profondo in tutte le persone che lavorano all’interno. In quei tragici giorni il nostro pensiero è andato a tutte le persone coinvolte, alla direzione, agli agenti, agli educatori, ai detenuti. Molti dei detenuti che partecipavano al nostro percorso teatrale sono stati trasferiti, in attesa che l’Istituto venga ristrutturato. Si tratta di percorsi interrotti, per noi e per loro. Abbiamo scritto a tutti, per mantenere un contatto, speriamo nelle loro risposte. Adesso, insieme alla direzione e agli educatori lavoriamo a una ripartenza. Nel carcere di Castelfranco Emilia sono già iniziate le prove da remoto, mentre in quello di Modena inizieranno questi giorni. È un segno tangibile di quanto il teatro sia ritenuto importante per il percorso delle persone recluse”.
Tornando a “Moby Dick”, lo spettacolo rappresentato in prima nazionale a Modena, vostra città di residenza, come si vede anche dal filmato “Moby Dick o il Teatro dei Venti” con la regia di Raffaele Manco (proposto fino a oggi in Rete, in streaming gratuito) è un evento di forte impatto a cui si è arrivati con il lavoro del Teatro dei Venti fatto di manualità artigianale, progettazione architettonica e messa in scena. Quali sono stati i problemi da affrontare per dare gambe a questo ambizioso progetto?
““Moby Dick” è un progetto nato per metterci in difficoltà. Abbiamo immaginato una operazione molto rischiosa che mostrava dal primo momento il nostro limite, artistico ed economico. Ci poneva davanti ad una creatura capace di mandare tutto a mare: sforzi e investimenti di anni. Come fossimo davanti ad una montagna dalle vette irraggiungibili, da scalare a mani nude. Mostrava pure però, anche una grande opportunità. Si intravedeva una possibilità di rinascita. Le altre difficoltà sono state meno traumatiche. Superare il primo ostacolo, quello che ha messo in discussione la nostra relazione intima con il teatro, ci ha fortificati. Abbiamo raccolto i fondi necessari in autonomia e così per tutti gli step produttivi di un’opera che possiamo definire “da Teatro Lirico”. Dal business plan alla creazione del cast, dallo studio scenografico all’organizzazione della prima tournée”.
Come è avvenuto l’incastro e la saldatura tra il lavoro dell’attore, la macchineria il racconto e la regia?
Da quando abbiamo avviato il percorso di ricerca per produzioni negli spazi urbani è sempre stato per noi fondamentale concentrarci sull’utilizzo degli strumenti “tipici” del teatro di strada, messi però a servizio di una drammaturgia. A condurre questa intenzione ci sono gli attori in scena, supportati dall’azione musicale. I trampoli ad esempio, così come la macchina scenica, svolgono una funzione drammaturgica fondamentale, non per l’attrazione, ma per la narrazione. Chiaramente cerchiamo di adoperare al meglio gli strumenti che via via servono alla scena, ma i nostri attori sono “attori che sanno utilizzare e sfruttare i trampoli”e non sono trampolieri. Sono attori che si mettono in azione e mettono in azione una macchina scenica necessaria alla drammaturgia. Non sono macchinisti, ma hanno dovuto imparare ad esserlo per avere un ruolo di “attore che mette in azione una narrazione”. La regia in questi casi deve tutelare l’orchestrazione tra le diverse forze in campo: la drammaturgia, gli attrezzi, la macchina scenica, la musica, il luogo dove il teatro avviene. C’è una presenza fisica in un luogo non convenzionale come la piazza, che va presa in considerazione. La piazza è parte di una narrazione. “Moby Dick” inizia con l’arrivo del palco/carro trainato dagli attori-detenuti, con uno sforzo che è reale, non finzione. Una piazza vuota che si fa teatro, grazie allo sforzo di un gruppo di persone. Questa è la drammaturgia che seguo”.
Cosa ha insegnato “Moby Dick” al Teatro dei Venti in termini di progettualità e orizzonti da inseguire?
“Abbiamo acquisito competenze importanti, adoperando gli inevitabili inciampi, per rimetterci ogni volta in discussione, a rischio, come persone e come professionisti. Possiamo senza dubbio dire che per il Teatro dei Venti c’è un prima e un dopo “Moby Dick”. Da anni ci lasciamo suggestionare dalle utopie. Con questo lavoro nella fase di progettazione, abbiamo imparato ad “immaginare utopie”. Nella fase di realizzazione a “mettere in movimento utopie”. Da un anno stiamo seguendo gli spunti che nascono da “abitare utopie”. Il progetto nel borgo di Gombola segue questa idea, così come il ripensare la nostra presenza in carcere”.
Nei fotogrammi del film realizzato da Raffaele Manco è impressa la fatica che ha preceduto il montaggio di un’opera che non è solo mera rappresentazione ispirata dal capolavoro di Melville, ma registrazione di un gioco di restituzioni e relazioni tra grande e piccolo, storie personali e corali di una comunità. Capitan Achab e il suo equipaggio, la nave, il mare e la balena bianca. L’uomo davanti a sé stesso e l’umanità allo specchio nel momento delle scelte, il cambiamento come atto anche violento di trasformazione. Guardando quelle immagini la sensazione di avere assistito al primo tassello di un lavoro più ampio.
“Il documentario è lo specchio del Teatro dei Venti nella fase di produzione dello spettacolo: lascia intravedere le criticità, le difficoltà e la visione che ci hanno accompagnati per tre anni. Siamo grati a Raffaele Manco per questo film, che ha realizzato in modo indipendente, seguendo una sua personale visione autorale, affascinato da un progetto che avvertiva come più grande di noi. Proprio in questo periodo iniziamo ad immaginare il prossimo spettacolo per gli spazi urbani e ci rendiamo conto che abbiamo avviato con “Moby Dick” una fase di ricerca che ci impegnerà molto nel prossimo futuro. Il teatro negli spazi urbani ha visto negli anni un allontanamento di studiosi, critici e programmatori di festival teatrali, destinando le produzioni ad un settore considerato limitato e marginale. Stiamo inseguendo un teatro di drammaturgia per spazi urbani, che adopera macchineria scenica, strumenti e attrezzi tipici del teatro di strada a servizio di una orchestrazione complessa, dove il luogo e la comunità che ospita il teatro, si fa elemento necessario alla scena, dove gli attori sono persone umanamente predisposte all’incontro, alla relazione, allo sforzo, consapevoli di essere parte di una operazione scenica che va oltre l’atto teatrale in sé”.
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