Beni culturali
Nell’opera un uomo viene pugnalato e, invece di morire, canta
Mi sono accorto, oggi, grazie all’articolo di ieri di Chiara Perrucci, che l’Unesco ha proclamato il canto lirico italiano patrimonio immateriale dell’umanità. Poi sono andato a sentire le varie voci che si sono levate da ovunque, luminari del governo, sottosegretari, direttrici d’orchestra, eccetera.
E sono anche andato a vedermi l’incoronazione:
Qui si può assistere al riassunto di oltre quattrocento anni di storia della musica in quattro parole sgangherate scritte da chissà chi, dove viene spiegato cosa sono il canto lirico italiano e l’opera, i suoi elementi e i luoghi dove il canto lirico italiano può esprimersi.
Tutto elencato da speaker non evidentemente italofoni e anglofoni per forza che ne parlano come se fosse un formaggio speciale, o una bestia d’allevamento di nicchia.
«Ci sono commenti, obiezioni? La commissione approva, complimenti Italia.”
E adesso il canto lirico italiano è patrimonio immateriale dell’umanità.
Ma, mi chiedo io, che, forse, sono sempre troppo esigente, che cosa significa tutto ciò?
Il canto lirico italiano e quindi l’opera italiana, appena laureata patrimonio dell’umanità, escludono tutte le altre opere nazionali che opera italiana non sono. Quindi né Les Indes Galantes né la Carmen o La Walkiria e il Flauto Magico, né Peter Grimes o Candide, né Eugenio Onieghin o Boris Godunov (scusate la traslitterazione) sono patrimonio immateriale dell’umanità in quanto sono sì, opere, ma non cantate in italiano.
Stessa sorte per opere in altre lingue composte però da autori italiani, cominciando dal fiorentino Giovanni Battista Lulli che, al servizio del Re Sole, diventò Jean-Baptiste Lully e inventò la tragédie lyrique francese. E che dire delle versioni francesi delle opere di Rossini, come Le Comte Ory o Guillaume Tell? Le versioni italiane sono patrimonio Unesco mentre quelle francesi no, secondo codesta classificazione bislacca?
E poi, che vuol dire canto italiano? Forse coloro che l’hanno proposto e gli altri che hanno letto il foglietto che era stato messo loro davanti e scritto da ignota mano sapevano le evoluzioni dal recitar cantando del Seicento, il cosiddetto belcanto per arrivare al canto spinto verista?
Si consacrerà la tecnica belcantistica di Manuel Garcia, artista spagnolo interprete di Rossini e trattatista, o quella di Mathilde Graumann Marchesi, virtuosa tedesca e autrice di un metodo di canto straordinario?
E, perdonate i miei dubbissimi: saranno da considerare canto lirico italiano le parodie vocali come i vagiti microfonici e nasali che offrono gruppi quali Il Divo o Il Volo (quando cantano in italiano, ovvio)?
Io trovo questa banalizzazione di un’arte sublime, che è il canto tout court, non solo quello italiano, perché anche quell’altro che si è sviluppato successivamente o parallelamente, con lingue e tecniche adattate alle diverse fonazioni, fa parte della Storia, ecco, io la trovo agghiacciante.
La trovo agghiacciante perché, appunto, il canto lirico italiano è trattato come una mortadella o un vino tipico. E mentre esultano i vari Sangiuliano e company, che appena sentono pronunciare il nome Italia associato a Unesco vanno in orgasmo senza nemmeno capire di cosa si tratta, io, che ero un cantante lirico di repertori nelle principali lingue europee, vado a nascondermi per la vergogna dell’ignoranza dilagante e ormai dilagata che caratterizza questo Paese e l’Unesco. Probabilmente Tolkien, pur non essendo patrimonio italiano, che viene esaltato come un autore straordinario, occupa tutto lo spazio possibile delle meningi dei nostri governanti (non sembra essere molto). Addirittura si vuol portare quella mostra dalla Galleria Nazionale di Roma al castello di Venaria Reale, in maniera che il Nord, poverino, non si senta escluso da un evento di risonanza mondiale come questo e che magari possano anche usufruirne i cugini svizzeri del Canton Ticino.
Siamo certi, comunque, che questa medaglia uneschiana verrà esibita nella prossima campagna turistica di Veneri botticelliane che sorrideranno ammiccanti da un palco della Scala. Anche gli editori musicali potranno finalmente apporre sugli spartiti ad uso di scuole e teatri il bollino Unesco, facendo la ruota del pavone: cari allievi, state studiando un patrimonio immateriale dell’umanità; fate attenzione a non graffiarlo.
Meglio di tutti, questa soddisfazione per la promozione la esprime la direttrice d’orchestra Beatrice Venezi, consigliere per la musica del Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano:
“Mi auguro che questo importante riconoscimento rappresenti anche una sollecitazione ai direttori artistici e ai sovrintendenti dei nostri teatri nell’ottica di un sempre maggior sostegno e valorizzazione del nostro tessuto artistico nazionale, che per suo DNA è depositario di questo know-how che tutto il mondo ci invidia.”
Casomai meglio dire che il mondo ammira, più che invidiare. Ma ci dev’essere sempre una sfumatura di superorgoglio, di un’investitura superiore da parte di una musa, di un malcelato sentimento d’invidia da parte altrui. Chissà perché. E poi, vorrei spiegato che significa “valorizzazione del nostro tessuto artistico nazionale”, dopositario per DNA di questo know-how… Come se non ci fossero scuole di canto spettacolari in altre parti del mondo, forse anche migliori di molti conservatori italiani, e tenute perfino da cantanti stranieri. Usurpatori! Ma è il “tessuto artistico nazionale” che mi risulta ostico. Che vuol dire? Io non ci arrivo, qualcuno me lo spieghi.
Urge un’alfabetizzazione, un po’ per tutti.
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