Beni culturali
Nel Giardino delle Illusioni perdute
Due balzi in avanti e uno indietro. Nel teatro, come nella vita, l’esperienza è scandita da successi, scivolate e mete da raggiungere. Solo chi sa relazionarsi con il proprio tempo, mettendone in scena problematiche e tensioni, può aprire le porte della conoscenza. I teatranti di questo tipo amano rischiare e, come obbedendo a un imperativo categorico, preferiscono seguire la passione e l’intuito, senza rivangare zolle di campi già arati. È il caso del regista Alessandro Serra che, dopo aver allestito una celebrata versione di “Macbeth”, immergendola in una realtà barbaricina, non così distante da quella scozzese evocata dal Bardo, ha deciso a sorpresa di confrontarsi con Anton Cechov nel “Giardino dei Ciliegi”. L’opera, mostrata in anteprima all’ultima Biennale di Venezia _ produzione Sardegna Teatro _ giorni fa è andata in prima nazionale, con successo di pubblico, al Massimo di Cagliari, all’interno del circuito Cedac. Così, mentre “Macbettu” premio Ubu come migliore spettacolo 2017, raggiunte le 200 repliche, continua la tournèe, dal Sudamerica al Giappone, Serra cerca un confronto ravvicinato con colui che della scena contemporanea è uno dei padri nobili. Quando sul finire dell’estate 1898 Anton Pavlovic Cechov, già famoso come autore di racconti, legge le pagine del suo “Gabbiano” a Konstantin Stanislavskji, il regista che poi a dicembre metterà in scena l’opera _ e, di seguito tutte le altre_ , sta per cambiare dalla notte al giorno il futuro del teatro. Dopo Cechov nulla infatti sarà uguale a prima.
Il medico, nato a Taganrog nel 1860 in una famiglia di umili origini _ il nonno, servo della gleba si era riscattato pagando la libertà _ , terzo di sei figli, un padre, religioso fervente, che educava la prole con le botte (“non ho avuto infanzia” racconterà lo scrittore) infatti, sarà protagonista con le sue opere di una svolta epocale. Una rivoluzione i cui effetti riverberano ancora oggi. Il suo teatro possiede in germe quello che verrà: si intravedono le linee di fuga di una ricerca che porterà al teatro dell’assurdo anticipando quello di Samuel Beckett. Nei suoi scritti destinati al palcoscenico non ci sono eroi ma persone riprese dalla vita di tutti i giorni, colte nel flusso dell’inarrestabile scorrere del tempo. Non una storia ma tante parallele fatte di personaggi che hanno una enorme difficoltà nel comunicare tra di loro, come di conoscere se stessi. L’incontro con Stanislavskji, che con Vladimir Dancenko proprio nel 1898 ha aperto a Mosca una zona franca dedicata alla sperimentazione è fondamentale per far volare l’opera cechoviana. Sono gli anni in cui al Teatro d’Arte, in reazione alla scena del tempo, costituita soprattuto di enfasi come stereotipo di recitazione meccanica e dizione innaturale, si sperimenta mettendo in primo piano la “verità”. Campo di prova per quel celebre metodo dell’attore messo a punto dallo stesso Stanislavskji (ispirerà Strasberg i cui princìpi saranno poi alla base della nascita dell’Actor’s Studio a New York) che in compagnia vanta, tra gli altri, attori di valore come il geniale Vsevolod Mejerchold _ colui che metterà in scena il “Mistero Buffo” di Vladimir Majakowskji e al quale si devono le ricerche sulla biomeccanica dell’attore _ e Olga Knipper futura moglie di Cechov, testimone delle ultime ore di vita dello scrittore ammalatosi di tubercolosi, spentosi il 15 luglio del 1904 a Badenweiler in Germania. Autore di profonda complessità Anton Cechov porta in dote al palcoscenico una via inedita al racconto, di cui proprio il “Giardino dei ciliegi”, (terminato di scrivere nell’ottobre del 1903) ultima sua opera, ne è un po’ la quintessenza. Per lo spettatore è un test di comprensione impegnativo. Difficilmente immaginabile per altro, il corredo di problemi e interrogativi per gli attori… Non è un caso che gli allestimenti consegnati alla memoria sono pochi e realizzati da straordinari maestri. Giorgio Strehler montò nel Piccolo di Milano un “Giardino” nel 1973 riprendendolo nel 1977 (c’è il filmato su YouTube) con Valentina Cortese , Giulia Lazzarini e Franco Graziosi. Peter Brook ne fece uno mirabile nel suo spazio Bouffes du Nord a Parigi nel 1981 con Natasha Parry e Michel Piccoli. E poi ancora altri come Jean Louis Barrault e Peter Stein. Allestimenti che, lavorando sulla linea comico-tragica dell’opera, hanno cercato e trovato interessanti soluzioni registiche, spesso ribaltando anche i rapporti tra i personaggi (Stein soprattutto, nel 1989).
Il plot dell’opera è leggero e ruota essenzialmente attorno un incantevole giardino di ciliegi che finirà all’asta per pagare i debiti dei proprietari.Riflettori accesi sulla situazione della Russia al tempo di Cechov. Con la fine della servitù di gleba, nel 1861, il vecchio mondo si sta sgretolando mentre il nuovo fatica ad imporsi. Per l’aristocrazia russa è comunque l’inizio della sua decadenza. Mentre la borghesia si va affermando come nuova classe dirigente i vecchi nobili, privati dei servitori che si occupavano delle case e delle proprietà, cadono in povertà travolti dai debiti di una vita spesso dissoluta. Come accade a Ljuba Ranevskaja, rimasta senza danaro per i debiti fatti dal marito e dal suo stesso incosciente e dispendioso stile di vita inseguendo i suoi amori. Dopo cinque anni passati a Parigi torna con la figlia diciassettenne Anja nella tenuta di campagna, ritrovando la casa dove ha vissuto l’infanzia assieme al fratello Gaev, e da dove fuggì dopo la tragica scomparsa del giovane figlio Gricha, annegato in un fiume. Alla sua corte una pletora di personaggi che ne attendevano il ritorno, qualcuno con l’illusione di poter fermare l’abbattimento dei ciliegi. Nel vortice narrativo entrano anche lo studente Trofimov, la governante Charlotta, la cameriera Duniasa, il vecchio maggiordomo Firs, ultimo sopravvissuto della servitù, il giovane servitore Jasa, il contabile Epichodov, il proprietario di terreni Piseik, l’altra figlia adottiva Varja, l’amico di famiglia Lopachin, figlio di servi della gleba diventato un ricco mercante. E’ lui che prova a consigliare a Ljuba e Gaev di trasformare il giardino in una lottizzazione di villini da affittare ai turisti salvando così la proprietà. Soluzione che però lascia freddi i due proprietari. Sarà proprio Lopachin ad aggiudicarsi all’asta i terreni e comunicarlo a Ljuba. Un tangibile segno del passaggio di potere da una classe all’altra. Lopachin, figlio e discendente di “mujik”, compie in questo modo il suo riscatto sociale e politico. Giunge il momento dell’addio. Nella casa deserta rimane solo il vecchio servitore Firs che non ha voluto riscattarsi restando fedele fino all’ultimo ai suoi padroni. Mentre sta per calare il sipario si ode in lontananza la scure che si abbatte sugli alberi. Il testo è di ampio respiro. Dal ricordo dell’infanzia felice, richiamato alla memoria nella stanza dei bambini sino al tangibile crollo di un’epoca. In mezzo il racconto dell’umana esistenza: filo sottile, quasi invisibile, che lega tutti i personaggi in un gioco di tensioni e ambiguità ripartito tra comicità e dramma. Una commedia, anzi un “vaudeville” come la battezzò Cechov. Che sottende la tragedia.
E’ questa dunque l’opera che Alessandro Serra ha voluto affrontare, dopo quel capolavoro di ritmo e visioni che è “Macbettu” , anche per sollevare più in alto l’asticella. Scegliere di allestire il “Giardino” è infatti _ soprattutto di questi tempi, anche per chi la produce_ un atto di coraggio. Un testo spigoloso dove si rischia a ogni battuta e cambio d’azione. Si viaggia in equilibrio precario con il pericolo di cadere nel dramma o nella prosa tout court. Già all’epoca pose problemi di interpretazione tra lo stesso autore e Stanislavskij. “E’ una commedia gaia e a tratti persino una farsa”, “quasi un vaudeville”, rivendicava Cechov al regista del Teatro d’Arte moscovita, ovviamente di tutt’altro avviso. Ed è innegabile che nonostante le affermazioni dello scrittore il “Giardino” sia innervato da elementi da tragedia, in Ljuba come in Lopachin ad esempio, quanto è altresì incontestabile ed evidente che l’opera si nutra di registri comici e trovate dal sapore farsesco. Il rischio che una linea prenda il sopravvento sull’altra è comunque dietro l’angolo. Per lo studioso e saggista francese di origine rumena Georges Banu, profondo conoscitore dell’opera cechoviana però “non bisogna sacrificare l’una per l’altra: bisogna metterle in scena entrambe”. E poi c’è il giardino stesso con le sue piante di ciliegie. Luogo sacro e idealizzato da Ljuba e Gaev che sarà profanato e violato dall’eroe del cambiamento Lopachin che in nome del progresso, un quadro offerto tutti i giorni della nostra contemporaneità _ vedi quanto accade in Amazzonia con i vari Bolsonaro _ ucciderà la natura. Opera di grandi sfide anche per un regista come Serra che ha lavorato essenzialmente nel campo del teatro immagine. Arduo coniugare in questo caso visionarietà e parole. Anche se è proprio l’apparente ambiguità di Cechov a solleticare un artista spingendolo a cercare altri percorsi interpretativi.
L’apertura del sipario fotografa il “Giardino” di Serra avvolto da una coltre di magmatica oscurità. Tutti i personaggi giacciono immobili a terra, come in un sonno profondo. La luce crescerà progressivamente all’arrivo di Ljuba, Gaev e Anja e, a seguire il circo dei personaggi che, uno dopo l’altro, entrano in scena come fantasmi risvegliati da un’altro mondo. Attori dentro la gabbia di una partitura dove si potrebbe con facilità andare fuori registro. Misurati e attenti a non sgualcire abiti presi in prestito, mostrano le linee d’ombra delle insicurezze e delle ambizioni, come le paure e le frustrazioni dei personaggi. Di difficile interpretazione e lettura in Ljubov’ Andreevna Ranevskaja detta Ljuba (Valentina Sperli) che appare spesso lontana, se non evanescente. Più concretamente in Ermolaj Alekseevic Lopachin (Leonardo Capuano) dove a tratti si coglie il disagio della doppia parte di amico e giustiziere, di essere cioè colui che chiuderà i conti liquidando con crudeltà la nostalgia. Gira come una trottola, piuttosto stralunato che ispirato, lo studente fuori corso Petr Sergeevic Trofimov interpretato da Felice Montervino. Quasi un cammeo quello di Bruno Stori nel ruolo di Firs, relitto del passato che si distacca sulla scena con scultorea profondità. A dare ogni tanto la scossa elettrica a un allestimento che macina l’ansia di dramma annunciato, sono i guizzi e l’elegante clownerie di Boris Borisovic Simeonov-Pisciik, un Massimiliano Poli stranito ed estraniato eroe di mediocrità quanto geniale nell’arte d’arrangiarsi. Fa il paio con Chiara Michelini nei panni della governante Charlotta Ivanova. Con la sua magnetica presenza è capace di far danzare il teatro grazie all’eleganza aerea dei suoi gesti. Con movimenti decisi quanto armoniosi tiene tutti in sospeso dando l’illusione di scacciare via per un attimo l’imminente naufragio collettivo. Una devastante marcia funebre fatta di contrastanti chiaroscuri che tendono decisamente al nero dove si respira il disagio di una umanità incapace di gestire il proprio presente e assolutamente persa davanti al futuro.
Alessandro Serra è artista capace di parlare attraverso le immagini, costruendo raffinate visioni dove si assiste a una sorta di reductio a unum: luci e oggetti, e anche le ombre e i fantasmi degli oggetti, concorrono a scavare dentro l’anima di chi assiste. Come accade d’altra parte nei precedenti “Macbettu” o in quel potente atto unico “L’ombra della sera” ispirato alla vita e alle opere di Umberto Giacometti. Anche qui nel “Giardino” le immagini assolvono un compito importante di guida alla lettura. Durano come lampi accecanti e illuminano volta per volta un universo di figure congelate nel tempo, fantasmi di un piccolo mondo antico. Sono le ruote proiettate sul fondale e gli attori in silenzio ad osservare le ombre come un film in bianco e nero. E poi c’è la scena del ballo sulle note della “Suite for variety”, detta anche “Waltz n.2” composte da Dmitri Shostakovic per il film “Il primo scaglione” di Mikhail Kalatozov del 1956 (riprese anche da Stanley Kubrick per il suo “Eyes Wide Shut” del 1999), quasi una danza macabra degli attori che fanno coppia, dame e cavalieri, ciascuno con una sedia. Le stesse sedie, raccolte assieme una sull’altra, saranno protagoniste, in chiusura, di un volo verso il cielo, come fosse un’installazione di Jannis Kounellis. Racconta un mondo che va verso la fine e non c’è nessuno che possa salvarlo. Come quei ciliegi che andranno distrutti per fare posto a cemento e costruzioni. L’ultima immagine dello spettacolo fotografa Firs che prova a issarsi sopra il groviglio ferroso delle sedie che salgono in aria ma cade a terra, giacendo immobile. Tutto è già accaduto in questo “Giardino” di Serra. Le illusioni sono finite, non c’è riscatto, né catarsi. Solo un buco nero che si restringe sul mondo. Cechov non è tradito, anzi. Pur dentro una tendenziale visione pessimistica, a cui difetta l’ironia, sembrerebbe anelare lo spirito originario dell’opera. A quella linea indecisa tra dramma e vaudeville, anche in questo caso mai davvero risolta. Peter Stein in una intervista rilasciata qualche tempo fa a Georges Banu disse che il desiderio di Cechov fosse quello di “ritrovare l’impatto e la forza della vecchia tragedia inventando però un’altra via, inedita, sulla quale era necessario educare il pubblico. Nel suo lavoro ogni passo era un addio al passato: alla fine lo spettatore non sapeva più cosa pensare e perciò accettava di confrontarsi con quelle perdite, quelle separazioni, quelle cose tragiche che vivono nel teatro di Cechov”. Specificando più avanti che il commediografo russo “gioca assai fortemente sul paradosso di una tragedia del quotidiano, comica e banale”.
La dimensione è insomma quella di una ricerca in progress. “Il Giardino” visto nella versione noir di Alessandro Serra _ in questo caso è un vero mattatore, autore cioè non solo della regia, ma anche di luci, scene e persino delle foto di scena _ sembra esser abitato da queste inquietudini, uno spettacolo che ogni sera si deve rimettere in gioco. Trasmette provvisorietà e la tensione di una ricerca, segno che l’opera cechoviana ancora oggi, a distanza di oltre cento anni, è in grado di porre interrogativi sull’esistenza, guidando e influenzando anche i teatranti del nostro tempo. Che poi questi riescano infine a trovare la strada per raggiungere il cuore di chi assiste alle loro messe in scena, quella è un’altra storia. Nella parte finale del “Duello”, racconto scritto da Cechov nel 1891 si legge una illuminante metafora: “La barca è ricacciata indietro – pensava – fa due balzi avanti e uno indietro, ma i vogatori sono ostinati, danno instancabilmente di remi e non hanno paura delle onde alte. La barca continua ad avanzare, ecco che ormai non si vede più e tra meno di un’ora i vogatori vedranno chiaramente le luci della nave e in capo a un’ora poi saranno già sulla sua passerella. Così è la vita… Nella ricerca della verità gli uomini fanno due balzi avanti e uno indietro. Le sofferenze, gli errori, la noia della vita li ricacciano indietro, ma la sete della verità e la volontà ostinata continuano a mandarli avanti. E chissà? Magari arriveranno fino alla verità autentica”.
“Il Giardino dei Ciliegi” con la regia di Alessandro Serra sarà in scena per la Triennale Milano teatro dal 18 al 21 dicembre. A seguire la tournè per l’Italia toccherà il teatro Era di Pontedera (12 gennaio), Forlì, teatro Diego Fabbri (23-26 gennaio); Teatro Arioso di Reggio Emilia (31 gennaio-2 febbraio); teatro Fraschini di Pavia (7-9 febbraio); TPE Teatro Astra di Torino (13-16 febbraio); Teatro Verga di Catania (18-23 febbraio); Teatro Argentina di Roma (24 febbraio – 8 marzo); Teatro Sociale di Bellinzona in Svizzera (19-20 marzo); Teatro Comunale di Casalmaggiore (22 marzo); Teatro Verdi di Padova (25-30 marzo); Arena del Sole di Bologna (2-5 aprile); Teatro Toselli di Cuneo (8 aprile), Teatro Comunale di Lonigo (18 maggio).
In scena anche Marta Cortellazzo Wiel nei panni di Anja, Petra Valentini in quelli di Varja, Fabio Monti è Leonid Andreevic Gaev, Massimiliano Donato riveste il ruolo di Semen Panteleevic Epichodov, Arianna Aloi quello di Duniasa e infine Andrea Bartolomeo interpreta Jasa.
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