Beni culturali
Memoria e musei della Shoah: delegare tutto alle comunità ebraiche è sbagliato
Nelle cronache giornalistiche dell’ultimo scorcio di estate hanno trovato ampio spazio polemiche sul Museo della Shoah di Roma. Sopravvissuti alla Shoah hanno lamentato ritardi e chiesto di accelerare il processo di realizzazione dell’opera, e sono state raccolte firme e pubblicati appelli per abbandonare il progetto originario — che prevede la realizzazione ex-novo di un grande complesso presso villa Torlonia — per creare in tempi rapidi un Museo presso l’EUR. Il Presidente della Comunità Ebraica di Roma ha minacciato l’uscita dalla Fondazione creata per la realizzazione dell’opera, e che raccoglie anche il Comune, la Provincia di Roma e la Regione Lazio. Alla fine la minaccia è rientrata. Il Comune ha ribadito che il Museo sorgerà a Villa Torlonia e si è impegnato per velocizzare le pratiche per l’attribuzione dell’appalto per la realizzazione del progetto realizzato dall’architetto Luca Zevi, e nel contempo ha messo a disposizione una palazzina – Casina dei Vallati – situata nel Portico d’Ottavia, nel cuore dell’ex-ghetto romano.
Si è discusso di dove collocare il Museo, di quale opzione architettonica o urbanistica fosse preferibile, della tempistica, ma nulla si è detto sul senso, le finalità e la natura dell’opera. Né tale riflessione era stata adeguatamente sviluppata in precedenza. Anzi, uno degli aspetti più sconcertanti delle politiche della memoria perseguite da enti locali e istituzioni centrali dello stato negli ultimi 15-20 anni è l’assenza di momenti di approfondimento, la miseria quando non la totale assenza di un dibattito pubblico in cui – anche con il contributo di storici, museografi e altri soggetti competenti – vagliare le diverse opzioni.
Cosa dovrebbe essere il Museo della Shoah? Come dare senso a quest’impresa, evitando di ricadere nelle trappole di quella retorica buonista, di quel culto acritico della memoria che tanto spazio ha conquistato negli ultimi anni? Per provare a ragionare è opportuno in primo luogo inserire quell’iniziativa in un contesto più ampio. La centralità della Shoah nell’immaginario e nel discorso pubblico occidentale (europeo e americano) è cresciuta a dismisura negli anni Ottanta e Novanta ed ha rappresentato una espressione, tra le tante, della globalizzazione delle culture; basti pensare al successo dei manga giapponesi dedicati alla figura di Anna Frank o all’inserimento di Auschwitz nei percorsi di viaggio che portano viaggiatori dell’estremo oriente – coreani, cinesi, giapponesi – a visitare, in un tour de force di poche settimane, il campo di sterminio insieme alle grandi città d’arte e alle principali mete turistiche del vecchio continente. Nell’arco di pochi anni, tutti i paesi Europei si sono dotati di una nuova ricorrenza, collocando il ricordo dello sterminio nei rispettivi calendari pubblici: è l’unica celebrazione condivisa dall’Unione Europea, fatto questo di per sé che fa riflettere sulla difficoltà di sostenere il progetto europeo sul piano simbolico, storico e culturale. Che senso ha fondare l’Europa unita sul ‘buco nero di Auschwitz’? Davvero è solo guardando nell’abisso dell’orrore che possiamo ritrovare le nostre comuni radici, e soprattutto: è lì che dobbiamo cercare risposte alle insidie del presente e alle sfide del futuro?
Sono diversi anni ormai che il calendario liturgico della Repubblica italiana è stato trasformato, secondo dinamiche non dissimili da quelle di altri paesi europei. Nuove ricorrenze sono state introdotte per legge, e tutte dedicate a vittime di vario tipo: dai deportati politici e razziali, agli infoibati, alle vittime del terrorismo ecc. Tutto ciò è maturato in modo caotico, contraddittorio, confuso. Come ha osservato Giovanni De Luna il Legislatore ha operato spinto da pressioni contingenti, assecondando l’enfasi contemporanea per il culto della vittima – che tanto spazio ha guadagnato in concomitanza con la crisi delle ideologie e della politica – ma testimoniando un’assoluta incapacità di elaborazione coerente. Un impressionante vuoto progettuale, che è poi vuoto politico e culturale, presiede all’attuale sistema commemorativo repubblicano. Ciò è tanto più evidente se dal piano della genesi delle nuove leggi memoriali si passa alle concrete azioni commemorative messe in atto nel corso degli anni. Per quanto riguarda la Shoah, il primo dato che colpisce è che, in un brevissimo lasso di tempo e quasi in contemporanea, sono stati approvati e finanziati progetti diversi e in parziale contraddizione tra loro.
A settanta anni dalla fine della seconda guerra mondiale l’Italia non ha ancora nessun museo della Shoah, ma ne ha ben tre in via di progettazione/costruzione. Il primo progetto nacque nel 2001, sull’onda del clima creato dopo l’istituzione della Giornata della Memoria: in modo estemporaneo, improvvisato e senza essersi consultato con nessuno l’allora sottosegretario ai Beni Culturali del secondo governo Berlusconi, Vittorio Sgarbi, lanciò l’idea della creazione di un Museo Nazionale della Shoah nella sua città, Ferrara. Il progetto venne approvato e finanziato dal Parlamento nel 2003 (L. 17 aprile n. 91). Dopodiché, come spesso accade, nulla si mosse. Fino a che nel 2006, per impulso dell’allora sindaco Veltroni, il Comune di Roma deliberò l’istituzione nella capitale di un Museo della Shoah, mettendosi evidentemente in concorrenza con il progetto ferrarese. Nell’ottobre dello stesso anno si trovò un nuovo equilibrio: a Roma sarebbe nato il museo della Shoah, mentre quello di Ferrara sarebbe stato trasformato in ‘Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano’. E tuttavia tale soluzione non parve soddisfare l’opinione pubblica e il notabilato politico ferrarese, che protestò per lo ‘scippo’ romano, rivendicando di voler mantenere uno spazio per il tema della persecuzione. Fu così che il Parlamento intervenne modificando il nome del museo ferrarese in “Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah” (L. 27 dicembre 2006, n. 296). Come se non bastasse a Milano dal 2002, su impulso della Comunità di S. Egidio e dell’Associazione Figli della Shoah — cui si aggiunsero poi la Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, la locale comunità ebraica e l’Unione delle Comunità, Ferrovie dello Stato, Comune, Provincia e Regione, dando vita a un’apposita Fondazione nel 2007 — si iniziava a progettare la creazione di un Memoriale della Shoah, presso il ‘binario 21’, nel sottosuolo della Stazione Centrale da dove erano partiti i treni carichi di deportati (sia ebrei sia politici). Quest’ultimo è l’unico progetto ad uno stadio avanzato di realizzazione: la biblioteca è in fase di allestimento ma è già fruibile un percorso espositivo ed è operativo un auditorium. A Roma e a Ferrara, in mancanza dei rispettivi musei sono comunque attive due Fondazioni (vedi rispettivamente qui e qui), che negli anni hanno organizzato varie iniziative tra cui mostre storiche e convegni; spicca per importanza la ‘Festa del libro ebraico’ organizzata a Ferrara ogni anno dal 2010. Allo stato non risulta ci sia alcuna forma di coordinamento tra i tre enti.
Se torniamo per un attimo alle polemiche giornalistiche della scorsa estate, risalta con evidenza come tutta la discussione si muovesse lungo un piano emozionale: non a caso si è insistito molto sul desiderio dei sopravvissuti ai campi, ormai molto anziani, di vedere il Museo in tempi brevi. Con tutto il rispetto dovuto a persone che hanno vissuto esperienze atroci, l’argomento è al contempo di indubbia efficacia mediatica e assolutamente fuori luogo. Il Museo infatti non può essere e non deve essere creato per loro. I testimoni diretti, o le famiglie che hanno subito l’effetto della persecuzione, non hanno bisogno di un museo per ricordare. Più in generale questo rivela uno degli equivoci di fondo di tali operazioni: la memoria della Shoah è di competenza delle vittime, ovvero degli ebrei e dei loro rappresentanti istituzionali? Ha senso che lo Stato tenda sostanzialmente a delegare alle istituzioni ebraiche la gestione di questa memoria?
La memoria della Shoah gioca un ruolo centrale nell’identità e nell’autocoscienza ebraica contemporanea, e la cosa assume talvolta connotati problematici: troppo spesso il culto della memoria sembra assumere i tratti di una sorta di ‘religione sostitutiva’, plasmando i contorni di una ebraicità dai contenuti incerti, ma le Giornate della Memoria e i Musei a tema hanno un senso primariamente se rispecchiano e sanno innescare processi di autocoscienza e di ripensamento del passato per la società maggioritaria. Le ricorrenze memoriali e gli istituti museali non possono in alcun modo essere concepiti come una sorta di tardiva riparazione per le vittime. Non solo perché nessuna riparazione è possibile, ma anche perché ciò produce una sostanziale delega in bianco al mondo ebraico, chiamato a ricordare per tutti. Questo sottrae senso alla commemorazione.
Quella memoria – va ripetuto – ha senso solo se NON è una memoria di parte, conservata, custodita e gestita dalle vittime o dai loro rappresentanti. Lo ha ricordato con incisività Elena Lowenthal in un brillante pamphlet pubblicato lo scorso anno, e provocatoriamente intitolato Conto la giornata della memoria. Gli ebrei sono stati massacrati – insieme ad altri – e però quella storia non è loro. Se appartiene a qualcuno è agli altri, a chi stava dall’altra parte, ai discendenti e agli eredi dei carnefici e degli spettatori. Amos Oz ha espresso questo concetto in modo estremo ed appassionato; Fima – protagonista dello splendido romanzo omonino del 1991 – interviene con queste parole in una discussione riguardante le controversie sul convento delle carmelitane ad Auschwitz:
“Perché mai dovremmo litigare coi i polacchi sulla proprietà di Auschwitz? Comincia a suonare come il seguito della nostra fissazione sul diritto dei padri e la terra degli antenati, e sulla mancata restituzione di un territorio liberato. Ci manca poco che s’impianti un nuovo insediamento lì, nelle camere a gas. Per i pionieri. ‘Kibbutz dei Forni’. […] Auschwitz un sito ebraico. Un sito nazista. Un sito tedesco. In fondo, dovrebbe proprio diventare un sito cristiano, in generale, e specificamente del cattolicesimo polacco. E allora: copra pure tutto questo campo della morte di conventi, croci e campane. Da muro a muro. Con Gesù su ogni ciminiera. Non esiste al mondo un posto migliore in cui il cristianesimo possa confrontarsi con se stesso. Loro. Non noi. Che ci vadano in pellegrinaggio, a espiare il peccato, o al contrario a festeggiare la loro più grande vittoria teologica di tutta la storia. […] Sarebbe molto meglio se l’ebreo che va là a commemorare le vittime, si trovasse circondato da una foresta di croci. Sentisse da ogni parte solo il rintocco di campane. Capisse che quello è il cuore della Polonia. Il cuore dell’Europa cristiana.”
Se la domanda preliminare, dunque, può essere ‘di chi è la memoria’? L’altra domanda chiave è ‘COSA si ricorda?’. In particolare cosa ricorda l’Italia? A quindici anni dall’introduzione della Giornata della Memoria ancora attendiamo dai rappresentanti delle istituzioni pubbliche delle parole nette e chiare circa il passato fascista e le responsabilità dell’Italia e degli Italiani. Parole come quelle pronunciate per esempio in Francia a due riprese da due Presidenti della Repubblica, come Chirac e Hollande, che hanno riconosciuto finalmente le responsabilità della Francia – della società, della cultura, delle istituzioni e degli apparati burocratici francesi – nella persecuzione antiebraica. Quest’ultimo, nel settantesimo anniversario della deportazione degli ebrei internati nel Velodrome d’Hiver – nel cuore di Parigi – ha affermato senza mezzi termini che si trattava di un crimine commesso “in Francia dalla Francia”. Dunque la Francia – e i francesi – non meri spettatori, né semplicemente complici dei tedeschi, ma responsabili in prima persona.
In Italia invece abbiamo assistito a un curioso processo in cui da un lato si rivendicava il dovere della memoria e dall’altro si evitava di fare i conti fino in fondo col passato. Da un lato, sin dalla fine degli anni Ottanta la storiografia nazionale ha superato vecchi stereotipi e decostruito il ‘mito del bravo italiano’, dimostrando in modo incontrovertibile che le leggi razziali del fascismo furono frutto di un’elaborazione autonoma e originale del regime mussoliniano e che furono rigorosamente e impietosamente applicate dalle amministrazioni pubbliche a tutti i livelli, e infine ha chiarito l’altissimo livello di coinvolgimento degli italiani negli arresti, nell’internamento e poi nelle deportazioni che ebbero luogo tra il 1943 il 1945. Dall’altro, sul piano pubblico hanno continuato a sopravvivere schemi narrativi autoassolutori. E’ significativo che – ad esempio – in seguito all’introduzione della Giornata della Memoria la Rai abbia prodotto una serie di sceneggiati che si concentrano tipicamente sugli italiani buoni, celebrando — spesso in modo improvvido e non pienamente aderente alla realtà storica — le virtù dei “salvatori”.
Sia chiaro, ciò che è necessario non è un rituale mea culpa. Ciò che serve, ciò che può dare senso a certe politiche della memoria è la capacità di inserire ciò che si ricorda nella storia e nell’esperienza collettiva della nazione. Riportare quegli eventi a noi, senza esitazioni e infingimenti. Non è chiaro cosa conterrà precisamente il futuro Museo della Shoah di Roma, ma è chiaro che sarebbe del tutto insufficiente e inadeguato se non dedicasse ampio spazio non solo al côté italiano della persecuzione, ma anche se omettesse di collocare adeguatamente quel capitolo nella più ampia storia politica e culturale italiana. Ragionare sulla Shoah ha senso se ci consente di ripensare la nostra storia, di riflettere su come abbiamo concepito e articolato i concetti di cittadinanza e su come è stato impostato il confronto con ‘gli altri’. La contestualizzazione storica è imperativa se si vuol capire, se si vuole andare oltre lo shock emotivo che può indurre l’esposizione alla violenza e all’orrore. Troppo spesso le iniziative organizzate in questi anni per gli studenti delle scuole si sono concentrate sulla dimensione atroce, spaventosa e orrifica della tragedia. Il passaggio dalla memoria alla storia può aiutare a superare la mera pornografia dell’orrore.
Parlando dei contenuti e della funzione del museo, è il caso di prendere di petto uno degli equivoci fondamentali che inquinano tanta parte delle attività commemorative che si sono sviluppate negli ultimi 15 anni: l’esposizione all’orrore della Shoah non rende cittadini migliori. Portare gli studenti in gita nei campi di sterminio non li rende più tolleranti o immuni a sentimenti di xenofobia e razzismo. Qual è la valenza pedagogica, se c’è, di questi sforzi di memoria? Può essere utile ragionare anche a partire dalle esperienze fatte all’estero: a Los Angeles è attivo dal 1993 il Museum of Tollerance, promosso dal Simon Wiesenthal Center. Fu creato all’indomani delle terribili sommosse che segnarono la California orientale dopo l’omicidio – da parte di due agenti di polizia – dell’automobilista nero Rodney King, col fine di educare alla tolleranza, e quindi nella speranza che esponendo i ragazzi agli effetti atroci dell’odio e della violenza razziale, sarebbe stato possibile prevenire altre esplosioni violente di quel tipo. La presentazione delle persecuzioni razziali del Nazismo vi ricopre un ruolo centrale. C’è da dubitare che, nonostante le buone intenzioni degli organizzatori animati da un sentimento liberale e progressista, mostrare immagini raccapriccianti di dolore e di morte renda gli adolescenti californiani più tolleranti, o che la retorica della tolleranza e dell’inclusività sia sufficiente a disinnescare l’esplosiva miscela di tensioni etniche e sociali che dilaniano tanta parte degli Stati Uniti. Tornando a noi, non sembra proprio che fino ad ora la Giornata della Memoria abbia reso gli italiani più tolleranti, o che abbia depotenziato gli istinti razzisti alimentati strumentalmente dall’estrema destra o dalla Lega.
Da ultimo, è necessario che i futuri musei italiani dedicati alla Shoah sappiano anche essere dei vitali luoghi di confronto e discussione, dei veri e propri poli di ricerca. La memoria – il modo in cui guardiamo al passato – non è cosa statica, ma è soggetta naturalmente a continue rinegoziazioni. Anche per questo i migliori e più importanti musei tematici dedicati alla Shoah non hanno solo una funzione espositiva, ma sono allo stesso tempo archivi e centri di ricerca. Penso, per esempio, alle pur diverse installazioni di Washington (Holocaust Memorial Museum) e di Parigi (Mémorial de la Shoah). In entrambi i casi, senza nulla togliere all’aspetto didattico, questi centri si fanno promotori di un’ampia serie di iniziative scientifiche, il cui fine non è solo lo sviluppo della conoscenza ma anche la creazione di un circolo virtuoso tra ricerca e divulgazione. Entrambi pubblicano riviste tra le più importanti nel settore a livello internazionale, attribuiscono premi e finanziamenti, offrono borse post-dottorato e fellowships, finanziano ricerche e convegni. Insomma, queste strutture sono luoghi di elaborazione culturale che fanno di tutto per attrarre studiosi sia giovani sia già affermati, stimolare il dibattito e il confronto. L’arretratezza degli studi italiani su questi temi, concentratisi in maniera quasi esclusiva sul solo lato italiano della vicenda, suggerisce che sarebbe imperativo dotarsi di strutture di questo tipo.
Tutto sommato, vista la portata delle questioni da affrontare, più che preoccuparci di completare in fretta i musei progettati sarebbe bene approfittare del tempo a disposizione per approfondire le tante questioni aperte. Spetta alla politica creare le condizioni perché queste non siano occasioni mancate. Al mondo della cultura e degli studi il compito di avviare una discussione seria e partecipata, senza paura di avviare polemiche o contrasti accessi. Mi piace pensare che sia possibile superare l’emotività e mettere in secondo piano le inevitabili strumentalizzazioni di parte. C’è ancora tempo per far le cose per bene.
Devi fare login per commentare
Accedi