Beni culturali
Memento àudere semper, le milioni di dosi di vaccini, troppi pochi
Siamo sicuri che la lingua italiana stia bene e il latino se la passi discretamente?
Sono perle che si ascoltano quotidianamente in tv, che, non dimentichiamolo, è il mezzo attraverso il quale la lingua si è diffusa, unificando linguisticamente il paese. E sempre attraverso lo stesso mezzo la lingua continua a diffondersi, propagando sempre più spesso imprecisioni le quali poi diventano, nel comune sentire, legge, regola, prassi.
Memento àudere semper l’ho sentita proprio stamani in un documentario, della serie “L’attimo fuggente”, su Gabriele D’Annunzio, autore del motto latino che significa “Ricordati di osare sempre”. Peccato che in latino si pronunciasse audère, perché il verbo è della seconda coniugazione. La voce che compie il misfatto è quella di Graziano Piazza, attore e regista piemontese, il quale in questo caso interpretava la voce di D’Annunzio che raccontava la sua vita dall’aldilà. La formula dei documentari, colla regia di Gianluca Sportelli e coi testi di Fabio Stassi, è quella di evocare gli spiriti di celebri poeti del Novecento facendo loro raccontare la propria biografia come se si fosse in un salotto, con aria disincantata e ironica, lasciando cadere gli aneddoti sul divano per poi raccoglierli e soffiarci su, disperdendoli tra i soprammobili. Carina e originale, non c’è che dire. Peccato che nel caso di D’Annunzio né il narratore né il regista né il montatore si siano accorti dello svarione fonetico. Audēre è l’infinito del verbo semideponente della seconda coniugazione e quindi va accentato sulla penultima sillaba, è così, non è un arbitrio. Perfino la Treccani, che consideriamo la bibbia, cade nell’errore e alla voce osare, nel dizionario dei sinonimi e contrari indica: osare /o’zare/ v. tr. [lat. volg. ausare, der. di ausus, part. pass. di audĕre “osare”] (io òso, ecc.). Audĕre, con accento breve, che è un errore, alla Treccani invece non lo sarebbe. Un tempo questo sarebbe costato la testa del doppiatore e del redattore della Treccani.
Se per audēre si può far rientrare lo sconcerto, seppure con riluttanza, considerando il latino lingua morta, di certo però proprio non si può sentire “le milioni di dosi (del vaccino)” pronunciato dal ministro Speranza e pure scritto su vari quotidiani, senza che nessuno noti e si scandalizzi dell’errorissimissimo: il soggetto è “milione” che è assolutamente, inequivocabilmente e infallibilmente maschile. Il milione, i milioni. Può darsi che il politicamente corretto voglia forzare la lingua italiana per non creare discriminazioni nella realtà e quindi influenzare il genere del soggetto per adeguarlo a quello del complemento di quantità (“le dosi”, in questo caso, femminile plurale). E pure Antonio Palma, su fanpage.it, il 14 aprile scrive: “Le 6,8 milioni di dosi in più del vaccino covid Pfizer per l’Italia saranno spalmate nel corso dei tre mesi del secondo trimestre dell’anno…” https://www.fanpage.it/attualita/per-litalia-68-milioni-di-dosi-in-piu-del-vaccino-covid-pfizer-lannuncio-di-figliuolo/ . Mi dispiace, ministro e signor Palma, non si può fare. Si scrive e si dice “I milioni di dosi”, così come “i milioni di donne”, “i milioni di rose”, “i milioni di stelle”. Nun se pò fà.
Troppi pochi, molti pochi, era un vezzo del Celeste, che credeva di parlare in italiano. Esibiva codesta prodezza in televisione, dimenticando o ignorando che troppo e molto, in questo caso, non erano aggettivi ma avverbi e quindi invariabili.
La povera lingua, sempre più straziata e sempre più vittima di assalti da lingue aliene, è un cadavere eccellente.
Non va meglio nelle pronunce straniere e nelle traduzioni che possono sfociare in sfondoni geografici degni dei concorrenti de “L’eredità”.
In un documentario di Paolo Sodi sul delta del Rodano, I guardiani della Camargue, prodotto da SD Cinematografica, sempre visto sulla Rai nella trasmissione Geo, il narratore pronuncia gardians colla s finale e pure con la n. Chissà perché, visto che in francese né la n (che invece è nasalizzata nella a) né la s finale vengono pronunciate. Ma questo fa parte dell’impreparazione di buona parte dei doppiatori, che in genere anglicizzano tutto (Uolter Bengiamin per Walter Benjamin e Riciard Vag-ner per Richard Wagner, anche se sono tedeschi). Come in un altro documentario, sempre sul Rodano e sul lago di Ginevra, stavolta su Lineablu, il doppiatore pronuncia Montreux “montrò”, mentre “eux” in francese si pronuncia “ö”. Se fosse Montreaux allora sì, sarebbe “montró”. Ma oggi che nelle alte sfere del ministero degli esteri è chic dire coronavairus, le pronunce esatte sono solo dettagli démodé.
Non molto tempo fa, sempre su Geo mi pare, o su RAI5, in un altro documentario sul Rodano di cui ho perso le tracce, a un certo punto viene detto che il Reno sfocia nel Mediterraneo. Eh? Pensai di aver sentito male. No, no, hai sentito bene, lo abbiamo sentito anche noi, mi rassicurarono accanto a me. Cosa sarà mai successo? Il Reno e il Rodano, in francese, hanno una pronuncia che differisce non di molto alle nostre orecchie. Di poco ma variano. Si scrivono Rhin e Rhône, e sicuramente chi ha scritto o tradotto il testo ha commesso lo strafalcione di confonderli. Cosicché il Reno, che sfocia nel Mare del Nord, e il Rodano, che sfocia, questo sì, nel Mediterraneo, pur avendo le fonti a pochi chilometri di distanza nelle Alpi Bernesi e nelle Alpi Glaronesi sono stati confusi dall’autore distratto di quel testo. Di certo il doppiatore, voce giovane, che di sicuro avrà studiato in una scuola dove la geografia ormai è materia obsoleta, non si è accorto dell’errore, così come hanno sopravvolato, per dirla col mitico Rokko Smitherson, il regista e il montatore.
Gianni Rodari scrisse “Il libro degli errori” (Einaudi 1964) ( per chi volesse andare a leggerselo https://classeinblogcom.files.wordpress.com/2020/05/il-libro-degli-errori.pdf ) per far comprendere ai bambini quanto fosse facile incappare in errori nella nostra lingua, spesso dettati da regionalismi, affidando al professor Grammaticus le varie correzioni ogniqualvolta, durante le sue passeggiate italiane, gli fosse capitato di sentire un’imprecisione, scrivendoci su una storiella o una poesia per ogni caso. Come la “maliaia”, una magliaia romagnola scambiata per una fattucchiera che faceva incantesimi, colla gente inferocita che voleva bruciarla:
Il professor Grammaticus inforcò gli occhiali e lesse: — Maliaia fine. Faccio malie di tutte le misure. (…) Il professor Grammaticus levò la matita rossa dal taschino, si chinò sul cartello e vi scarabocchiò in fretta qualcosa. — Leggete ora! E tutti lessero: — Magliaia fine. Faccio maglie di tutte le misure.
Oppure il povero “ane” fiorentino che era un cane senza testa.
La testa, si dice,
gliel’hanno mangiata…
(La «c» per i fiorentini
è pietanza prelibata).
Vivere senza testa
non è il peggio dei guai:
tanta gente ce l’ha
ma non l’adopera mai.
Gianni Rodari, che genio. Nostalgia per un’epoca ricca di autori che sapevano come spiegare le cose con leggerezza e di editori che pubblicavano capolavori. E, forse, per un’epoca in cui una maggiore esattezza idiomatica, e non solo, era una delle cose fondamentali. A differenza di oggi dove l’imprecisione è concessa se riguarda una pronuncia o uno svarione geografico o sintattico ma dove si deve stare attenti a dire ministra o direttrice d’orchestra per non incappare nelle maglie della censura o nello sdegno universale.
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