Ambiente

L’uomo che scambiò una villa palladiana per un supermercato

15 Febbraio 2019

L’Italia ha un gran bisogno di ipermercati. Quando pensiamo a cosa manca davvero in questo paese non possiamo fare a meno di immaginare superstore mastodontici, luccicanti, frenetici. Pronti a ridisegnare il paesaggio urbano e psicologico, a restituire piena sovranità all’uomo-consumatore, prodotto storico tra i più diffusi, tra i più sondati.

La penuria di centri commerciali affligge i nostri risvegli, perseguita le nostre insonnie, seduce i nostri sogni, ingrassa i nostri traffici veicolari, ispira orazioni meravigliose. Turba ed eccita. Eccita e turba. E così via, all’infinito. Senza sosta. In ogni luogo. Proprio in ogni luogo. Persino in una villa palladiana.

Siamo passati dalla sindrome di Stendhal alla sindrome di Scarpa. Dalle “sensazioni celesti” alle vertigini da shopping. Questione di retaggio. Un retaggio culturale che, nella mente dei pochi, ama ritenersi raffinato, ma che finisce con l’essere fondamentalmente smargiasso se non ci spingiamo troppo a ritroso: il Rinascimento è inattivo da un pezzo, il consumismo, viceversa, gode di ottima salute, e già da un po’, ovunque.

Abbiamo accennato a un certo Scarpa, non vi sarà sfuggito. Chi è costui? Un audace, per i cauti. Uno strumento dello Zeitgeist, per i letterati. Un fenomeno nel settore strategico delle opinioni intransitabili, per i detrattori. Un barbaro di buona indole, per i curiosi. In sede di cronaca, il responsabile provinciale, per la provincia di Treviso, di Italia Nostra, associazione coinvolta nella tutela dei beni culturali e ambientali. In sostanza, un attivista esasperato dall’incuria. Disposto a tutto. Anche a ubicarsi sulla esile linea di demarcazione che separa il talento visionario dal cazzeggio eretico.

La sua proposta: “Un supermercato a Villa Emo, per far vivere la palladiana dimora, mantenendola aperta al pubblico”. E poi ancora: “Rendere Villa Emo un progetto pilota a salvaguardia del territorio. Invece di continuare a costruire nuovi supermercati consumando il suolo, si può iniziare a ragionare sulle funzioni alternative che possono avere le ville venete”. Il nobile intento: “Evitare che le ville venete vengano chiuse al pubblico. Ed è questo il rischio concreto per Villa Emo, nel caso in cui si concretizzi l’acquisto del magnate straniero”.

Una figata, insomma. Una specie di guazzabuglio psuedowarholiano. La Campbell’s soup traslocherà in carne e ossa tra gli scaffali di una villa del Palladio. La quale, per i posteri, diverrà impensabile senza insaccati e barattoli al suo interno. Sarà la prosecuzione del Rinascimento con altri mezzi, l’abbraccio amorevole tra cultura alta e cultura pop come non avremmo mai pensato di vederlo. Incredibile che tale proposta sia stata lanciata da un addetto ai lavori e non da un politico allucinato o dal Briatore di turno.

D’altronde, riconosciamolo, l’opera d’arte architettonica – come qualsiasi frammento del patrimonio storico-artistico – fatica a immettersi in una cornice di senso nell’epoca del Presente Assoluto, perde la propria ovvietà, il proprio diritto all’esistenza. Di base, quando non assume il carattere di feticcione turistico, si trova davanti a un bivio: farsi pietra abbandonata, adibirsi a latrina per volatili, consegnarsi alla damnatio memoriae, oppure, ripensarsi, destinarsi ad altro, trasfigurarsi. Pubblico abbandono o privata reviviscenza.

In qualche caso, c’è persino una terza via, del pubblico ludibrio, della reviviscenza coi fiocchi. Terza via, a parere dei passatisti, perfettamente incarnata dalla provocazione scarpesca. Che, per questi ultimi, dai piedi ben poggiati sulle nuvole, si avventura dall’inconcepibile al probabile con troppa leggerezza.

Essi ammoniscono con levata di scudi: “non far conto della bonaccia nella tempesta” è un comune difetto degli uomini. Provvedere alla rinascita di un luogo d’arte riplasmandolo in non luogo è come minimo abominevole.

Detto, fatto. L’ideona del dimissionario Scarpa non avrà seguito (tempi acerbi…), perché inascoltata (per il momento…).

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