Beni culturali
Chi ha diritto alla cura del patrimonio (e chi no)?
Pubblichiamo un estratto da La partecipazione alla gestione del patrimonio culturale a cura di Alessandra Ferrighi, Elena Pelosi pubblicato da Luca Sossella editore. La ricerca condotta dalla Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali su casi concreti di cura, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale dal basso dimostra come queste esperienze siano testimonianze del bisogno di rendere la partecipazione attiva un valore fondante nella vita dei nostri territori.
Nel dicembre del 2020 Amund Sinding-Larsen ricevette, rigorosamente online, il prix Gazzola. Il Consiglio internazionale dei monumenti e dei siti (ICO- MOS) premiò così uno studioso con quarant’anni di esperienza sul campo – in Africa, Medioriente e Asia – e insieme a lui le persone attive dal 2007 in Our Common Dignity. “Grazie al tenace lavoro di Amund, molte voci importanti ma finora étouffées (soffocate) sulla molteplicità dei valori insiti nel patrimonio vengono ora ascoltate e sono benvenute”: così il presidente della giuria, Gustavo Araoz. Da un punto di vista democratico, queste parole rimandano in prima battuta alla sfera deliberativa (Bobbio 2005): la gestione del patrimonio deve ascoltare gli abitanti (Sclavi 2022), tradizionalmente educati e abituati a delegare le decisioni a chi li governa e li amministra.
Ma Amund Sinding-Larsen affermò a sua volta, e in modo più radicale, che la Convenzione di Faro: “[…] rafforza le comunità locali […] fornisce i mezzi e una piattaforma – a quei gruppi sociali che finora sono stati senza voce – per essere visti, dando loro quel posto di cui hanno bisogno e che meritano”. Scegliendo di parlare di comunità si rimanda a una dimensione politica dell’agire collettivo diversa dalle azioni di sin- gole persone: per esempio, alle numerose esperienze di comunità in azione capaci di orientare le politiche (Gallent e Ciaffi 2014). Quando Amund Sinding-Larsen mette insieme i gruppi sociali senza voce con il tema della manutenzione e gestione del patrimonio culturale, spinge le sfide democratiche verso due questioni fondamentali.
La prima è ormai consolidata nella letteratura partecipativa e rimanda alla dimensione inclusiva: oltre mezzo secolo fa la studiosa, consulente e attivista americana Sherry Arnstein (1969) centrava le sue riflessioni sulla vera e falsa partecipazione proprio sugli have not, le persone che non hanno. Non hanno istruzione, soldi, tempo per partecipare. Quindi non hanno voce. Negli stessi anni l’architetta e pianificatrice Jane Jacobs lottava per la parità di genere nei processi di trasformazione urbana (fig. 1). Insomma, se la partecipazione non modifica quello che nella letteratura francese viene chiamato “il gioco fra gli attori”, il potere non viene redistribuito, la palla (il patrimonio) molti continuano a non toccarla mai, qualcosa non va. A struggle for heritage una decennale ricerca – storica, archeologica, archivistica e orale – documenta due secoli di sopravvivenza e lotta per preservare la propria cultura da parte di una comunità di nativi americani e afroamericani esclusa dalla narrativa dominante sulla costa settentrionale di Long Island (Matthews 2022). È interessante la traiettoria percorsa tra gli altri da Rodney Harrison (Harrison e Hughes 2010, Harrison et al. 2020), che dagli studi sulle relazioni tra patrimonio e (post)colonialismo/patrimonio e giustizia sociale, matura l’interesse sulla relazione tra patrimonio e giustizia ambientale e climatica, mettendo a fuoco il fatto che a essere senza voce non sono solo gli umani.
La seconda sfida riguarda un’altra dimensione della democrazia, che in Francia hanno iniziato a chiamare “contributiva” (Barbot 2016). Da circa quindici anni Amund Sinding-Larsen concentra il lavoro di ricerca-azione di Our Common Dignity, come quello di simili raggruppamenti di ricercatori in azione, sulla dimensione del fare insieme, del cooperare, della manutenzione del patrimonio, della sua gestione in modi innovativi.
Alla lista delle “persone senza” elaborata più di mezzo secolo fa oltreoceano da Sherry Arnstein si aggiunge così un diritto troppo spesso non esercitato né esercitabile: il diritto a potersi prendere cura dei beni comuni, in generale, e del patrimonio culturale, in particolare.
Poco sopra abbiamo evidenziato i frequenti e persistenti rischi di esclusione sociale per ragioni di ge- nere, di reddito, di razza eccetera. Ma questo diritto per ora è generalmente negato anche a molte persone sane, bianche, colte e occupate. A oggi in Italia il diritto alla cura dei beni comuni (patrimoniali, ma non solo) non viene nella maggior parte dei casi nemmeno immaginato. Da quasi dieci anni mi diverto a chiedere sistematicamente alle mie studentesse e ai miei studenti di architettura, così come al pubblico delle conferenze, ma anche a caso, ad amici e conoscenti: “State camminando e notate un luogo abbandonato ma affascinante, uno spazio pubblico o un edificio: pensate di avere il diritto di prendervene cura?”.
La prima reazione è di sorpresa per la domanda stessa, come se la domanda fosse nuova (in quei momenti penso sempre alle donne che per la prima volta in vita loro si sentivano chiedere: “Pensi di aver diritto di votare anche tu?”). La risposta è quasi sempre un no e le argomentazioni più frequenti afferiscono a due temi, delega e proprietà: “No, perché della manutenzione dello spazio pubblico se ne dovrebbe occupare il Comune”, “No, perché l’edificio non è mio” (risposte in qualche modo vicine a quando si diceva che per le donne tanto votavano i padri, i fratelli, i mariti). Quando qualche voce esce dal coro e risponde di sì, seguono sempre descrizioni di esperienze di volontariato civico, quando invece il tema del diritto alla cura è ben più ampio e dovrebbe essere inteso anzitutto come diritto al lavoro (Bonasora 2022).
Lo Stato cambia stato, mentre prende forma la “società della cura”
Tutte e tutti, con uno sforzo politico per includere le molte persone senza voce e invisibili, dovrebbero insomma iniziare a chiedersi se possono o no esercitare il diritto alla cura del patrimonio comune. Nel prossimo paragrafo descriveremo il contesto italiano come pronto, dal punto di vista costituzionale e amministrativo, a favorire la nascita e la crescita di esperienze di cura dei beni comuni. Le quali, però, da una parte, trovano forti resistenze culturali in una società occidentale in cui gli Stati si sono organizzati nei secoli affinché gli abitanti delegassero le proprie responsabilità, mentre la giurisprudenza separava rigidamente il mondo e il pensiero tra pubblico e privato e il fulcro di tutto diventasse “il terribile diritto” (Rodotà 2013).
Dall’altra parte, il ritorno alla logica dei beni comuni (Coriat 2015) viene favorito da alcuni cambiamenti di contesto ambientale, sociale, economico, istituzionale e culturale che vanno almeno presi in rapida rassegna. Già una decina di anni fa Zygmunt Bauman puntava l’attenzione sull’individuo solo ed ego-centrato, tutto fitness e zapping, dicendo che per non diventare stranieri a noi stessi era forse giunto il momento di guardare a nuove strategie di vita (Bauman 2014). Il fatto stesso che l’attenzione sia qui focalizzata sul patrimonio inteso in senso ampio, come nella Convenzione di Faro, è frutto della trasformazione postmoderna della società, dell’amore e dello stesso Stato dallo stato so- lido (stabile, certo, durevole) a quello liquido (fragile, momentaneo, insicuro).
Stato potente, liquido o sussidiario: quali ricadute sul patrimonio? Questa è una delle domande fonda- mentali. Consolidata e abbondante è la letteratura sull’uso simbolico del patrimonio a rappresentazione del potere “eterno” di chi comandò e comanda nelle repubbliche, nelle monarchie, nelle dittature. Le guerre spazzano via il patrimonio, in Siria come in Ucraina. Nel febbraio 2023 l’UNESCO accerta 238 siti danneggiati in Ucraina a partire dal febbraio 2022. Un’inchiesta del “New York Times” parla di distruzione sistematica di siti culturali ucraini. Come si chiede Lisa Parola (Parola 2022), resta aperta la questione sulla distruzione dei monumenti quando la storia cambia direzione.
Quale messaggio mandano i progettisti di patrimonio coevo che ai potenti di oggi, loro committenti, rispondono con la temporaneità dichiarata delle proprie scelte ispirate alla circolarità, alla re-invenzione e alla digitalizzazione (Ratti 2022)?
Certamente si tratta di mettere al centro la crisi climatica e la responsabilità ambientale anche attraverso una sorta di “patrimonio in azione”, così come lo ha definito il già citato Rodney Harrison. Si tratta altresì di criticare radicalmente la società del consumo di risorse comuni, tra cui il patrimonio nelle sue diverse declinazioni. Molti osservatori concordano nel far risalire alla crisi economico-finanziaria della fine degli anni duemila la nascita della cosiddetta “società della cura”, che spinge verso l’uso condiviso delle risorse e un’attitudine attiva che in campo digitale viene detta da prosumers, crasi di produttori e consumatori.
Contemporaneamente in campo economico si affermano modelli di sharing delle biciclette come delle automobili, mettendo parzialmente in discussione il paradigma proprietario. È interessante notare che, già alla fine degli anni novanta, Gregorio Arena, professore di diritto amministrativo dell’università di Trento, che da lì a poco fonderà il Labora- torio per la Sussidiarietà, si chiedesse se non avviarsi “verso un’amministrazione condivisa” (Arena 1997).
Il diritto a prendersi cura del patrimonio: in Italia “la tavola è apparecchiata”…
Pochi anni dopo, nel 2001, venne introdotto nella nostra Costituzione l’articolo 118 ultimo comma: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Chi legge può provare a cambiare i soggetti pubblici elencati con altre istituzioni del variegato mondo del patrimonio, per esempio: “I Musei favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”. Oppure, come mi è stato fatto notare dalla rete degli ecomusei pugliesi, potrebbe essere meglio circostanziato, con riferimento a loro stessi, l’oggetto: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale svolte dagli ecomusei pugliesi, sulla base del principio di sussidiarietà”. Ma oggetti potrebbero anche essere i “nuovi centri culturali” (Niessen 2023) piuttosto che i luoghi reinventati dai Placemaker (Granata 2021), in perfetta linea con l’apertura data dalla Convenzione di Faro all’accezione di patrimonio.
Ciò che negli anni ha reso così concreto, vicino e amico questo principio costituzionale, cosiddetto di sussidiarietà orizzontale, è stato il primo Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni presentato a Bologna nel 2014. Messo a punto insieme a Labsus e approvato da molti autorevoli esperti nazionali di diritto amministrativo, questo testo permette di stipulare patti di collaborazione tra pubblica amministrazione locale (contraente che deve sempre esserci), soggetti del terzo settore e privati, persino e soprattutto gruppi informali e singoli abitanti attivi. Questo primo regolamento ha funzionato da apripista a livello nazionale e sono oggi circa trecento i Comuni in cui è possibile stipulare patti di collaborazione per la cura dei beni comuni. Purtroppo, in alcune decine di questi territori, all’adozione dei regolamenti non è ancora seguita la stipula di patti. In altre realtà locali la promessa di sburocratizzazione non è stata mantenuta, rendendo l’iter della pattuizione difficoltoso per gli abitanti attivi. I problemi interpretativi restano d’altra parte molti anche per gli amministratori pubblici, poiché spesso vengono sottoposte loro attività di interesse particolare e non generale. D’altra parte la rivoluzione copernicana, dal punto di vista democratico, consiste nel fatto che l’interesse genera- le non coincide con l’interesse pubblico (Poggi 2020).
Ma, pur tra queste e molte altre difficoltà, l’Italia è uno straordinario laboratorio di sussidiarietà orizzontale. Annualmente Labsus cerca di fotografare il cambiamento in corso attraverso i Rapporti sull’amministrazione condivisa, promuovendo scambi con attivisti e studiosi internazionali che ci osservano a loro volta – con meravigliata attenzione e costruttivo spirito critico – i circa settemila patti di collaborazione in corso. Proprio a un gruppo di ricerca italo-francese con cui lavoriamo da anni, prima sulla cura dei beni comuni e ora sui servizi di prossimità di interesse generale, devo dire grazie perché per cinque volte mi hanno aiutata a capire meglio cosa stava così velocemente succedendo in Italia. La prima volta è stata quando mi hanno fatto riflettere sul milieu cooperativo bolognese come incubatore del regolamento e dei patti. La seconda volta è quando hanno trovato geniale il fatto che i patti si stipulano soprattutto con i responsabili tecnici che lavorano nelle pubbliche amministrazioni locali: nella nostra ultima indagine, nel 70% dei casi sono diri- genti, nel 22% dirigenti con passaggio politico, e solo nell’8% sono politici (Labsus 2022). La terza volta è quando hanno esclamato: “Da noi stiamo teorizzando cose che voi state facendo!”.
La quarta è quando non riuscivano a credere che il concetto di amministrazione condivisa fosse stato davvero esteso anche alla coprogettazione e alla co-programmazione da una storica sentenza della Corte costituzionale nell’estate del 2020, che, come Gianfranco Marocchi (Marocchi 2020) ha molto efficacemente sintetizzato, equivale a dire che in Italia ora è possibile riorganizzarsi su principi collaborativi, dicendo stop al mercato (nell’articolo citato l’autore si chiede: “Ma tu ce l’hai con il mercato?”, rispondendosi: “Il male non è il mercato, è averlo assolutizzato come strumento universalmente valido, avergli conferito a priori e ovunque un primato sia etico che funzionale”).
La quinta volta che gli amici e colleghi (La Coop des Communs 2023) hanno usato la metafora che ho ripreso per intitolare questo paragrafo, che in Italia “la tavola è apparecchiata”, abbiamo davvero a questo punto tutti gli strumenti del diritto per essere il Paese più sussidiario del mondo: in senso orizzontale, è sempre bene specificarlo.
La revisione del Regolamento di Bologna descritta da Donato Di Memmo (Di Memmo 2023) – uno dei funzionari ideatori del primo regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni – mette finalmente a sintesi operativa la doppia accezione di amministrazione condivisa. Da un lato l’amministrazione condivisa dei beni comuni, e qui leggasi: beni del patrimonio culturale intesi come beni comuni. Dall’altro lato l’amministrazione condivisa dei servizi pubblici, e qui il riferimento va alla progettazione e programmazione condivisa delle politiche culturali oltre la logica dei tradizionali appalti dei servizi culturali. Il tocco finale a una tavola così ben apparecchiata sarebbe una assai innovativa concezione armonica di entrambe, affatto banale.
… e centinaia di esperienze di cura del patrimonio sono in corso
Per Labsus è estremamente interessante che la ricerca sulla partecipazione alla gestione del patrimonio culturale abbia restituito il dato che più di un’esperienza su cinque, tra quelle mappate, usi lo strumento del patto di collaborazione: più precisamente il 22%, pari a 35 esperienze (Fondazione 2023). Si tratta infatti di un carotaggio tematico che aggiorna e completa l’analisi a scala nazionale svolta su 101 patti di collaborazione attivi nel 2021 (Labsus 2022), in cui la categoria “beni culturali/cultura” era terza per numerosità delle esperienze (7,5%, su un campione di 101 esperienze).
Cercando una correlazione tra i dati che permetta di mettere a fuoco anche le ibridazioni che riguardano gli oggetti delle alleanze e i soggetti delle stesse, si scoprono esperienze sempre più complesse e multi-attoriali con una presenza molto più estesa del dato secco. I beni culturali, intesi come beni comuni, sono infatti sia soggetti che oggetti del patto, nel senso che un museo può essere sia firmatario del patto che oggetto di cura da parte di un patto stipulato tra una scuola e una municipalità. Così, dalle nostre analisi incrociate, i beni comuni culturali si ibridano con ambiente e verde urbano, animazione del territorio, arredo urbano, scuola e attività educative, iniziative di inclusione sociale.
Da segnalare la forte crescita dell’uso del patto di collaborazione come strumento per prendersi cura di edifici, oltre l’8%: edifici ex-industriali e caserme, categorie immobiliari specifiche, rappresentano rispettivamente lo 0,5% e lo 0,2%. Questo dato indica che qualcosa si sta muovendo sul versante della cura e gestione condivisa del patrimonio immobiliare degli enti pubblici (e non solo) e di una crescente disponibilità a ripensare insieme le funzioni di “luoghi-ex-qualcosa”, che hanno smesso di svolgere una specifica funzione per la comunità e sono dunque pronti ad accoglierne altre da definire insieme.
In flessione invece rispetto a due anni prima il dato relativo ai patti per la cura di spazi culturali (cinema, teatri) e biblioteche, che insieme raggiungono a fatica un 3%. Rispetto a quest’ultimo dato in particolare, ma anche ad altri di questa batteria, è impossibile non chiedersi l’impatto di un 2021 pandemico, an- che laddove le percentuali restano del tutto invariate, come nel caso della cura di piazze e vie, ferme attorno al 17%, sì, ma con una probabile schizofrenia tra i deserti urbani dei momenti peggiori dell’emergenza sanitaria e le reazioni collettive di cura ispirate all’italianissima cultura della vita di strada insieme.
Poiché sarebbe in questa sede impossibile entrare in dettaglio nella descrizione delle esperienze di cogestione dei beni patrimoniali culturali intesi come beni comuni, optiamo per una galleria scelta di tre esperienze pattizie in corso.
La prima è paradigmatica di come il patrimonio UNESCO possa essere cogestito in una collaborazione tra Comuni, Soprintendenze, associazioni e gruppi attivi informali: così è nel patto senese per la cura delle mura di Siena. Il secondo patto è in corso dentro e sopra un edificio ex-industriale, che sta affrontando la sfida di diventare un hub culturale di comunità nel quadrante nord di Torino, quello con i dati socio-economici più fragili ma anche la popolazione più giovane e multietnica. Il terzo patto è in corso a Pedimonte Matese in provincia di Caserta : usciamo così dai contesti urbani e metropolitani ed entriamo in un abitato di poco più di diecimila abitanti, collocandoci a metà tra una concezione materiale e una immateriale di patrimonio diffuso (Palumbo 2022).
Nuovi modi di partecipare contribuendo: avvertenze
Il passaggio dal paradigma bipolare a quello collaborativo implica il cambiamento radicale di alcuni schemi di pensiero. Uno di questi riguarda i soggetti: lo schema classico è quello che vede i responsabili pubblici del patrimonio culturale come soggetti autoritativi da un lato, e dall’altro lato le comunità in azione che lottano contro questa attitudine, volendo partecipare all’uso e alla gestione del patrimonio culturale stesso. Questa dinamica oppositiva è calcificata, e il conflitto trova le sue legittime ragioni non solo di fronte a casi di uso predatorio delle risorse pubbliche da parte di privati a cui viene concesso l’uso esclusivo o addirittura venduta la proprietà, ma anche in una variegata gamma di casi di malagestione delle risorse pubbliche da parte dei soggetti pubblici stessi. La partecipazione è lotta, in molte esperienze coeve e passate: bisogna lottare contro la cementificazione del patrimonio naturale, occorre prendersi cura del patrimonio architettonico moderno a rischio di demolizione, battersi contro la chiusura di siti di interesse culturale eccetera. Ma nel paradigma dell’amministrazione condivisa dei beni culturali in- tesi come beni comuni c’è qualcosa di nuovo. Anche nelle pubbliche amministrazioni locali, provinciali, regionali e statali italiane ci sono dipendenti pubblici che vogliono essere parte attiva di queste comunità in azione per la cura dei beni comuni.
Da circa dieci anni incontro gruppi e amministratori notando un progressivo cambiamento nei comportamenti. In una prima fase i dipendenti pubblici partecipavano alle formazioni sull’amministrazione condivisa presentandosi frequentemente come semplici cittadine e cittadini attivi, talvolta preferendo restare in incognito, altre volte anteponendo il fatto di essere membro di un’associazione al fatto di avere un’occupazione dentro a un ente pubblico locale. Più l’amministrazione condivisa dei beni comuni si è andata affermando come modello di co-gestione dei beni comuni nel nostro Paese, meno frequenti sono diventati questi comportamenti.
Laddove il dispositivo pattizio è più usato, la comunità in azione si allarga a includere anche i dipendenti pubblici che sempre meno timidamente ne fanno parte. Spesso si tratta di persone molto sole dentro a municipi, scuole, aziende sanitarie locali e altri enti pubblici, che quotidianamente lottano per un approccio orizzontale e paritario in ecosistemi verticali e dirigisti. Proprio nelle attività di co-gestione si formano gruppi ibridi in cui si coopera sentendosi meno soli come soggetti pubblici, privati e di terzo settore. Il fatto che il patto resti un atto amministrativo sempre aperto è importante, perché – come ci insegnano con linearità estrema gli psicologi di comunità anglosassoni – ogni volta che in un processo partecipativo si forma una community-in (come nel caso dei firmatari di un patto di collaborazione) dobbiamo essere consapevoli che c’è una community out.
Gli studenti a cui spiego questo principio diventano giustamente severi analisti di patti esistenti da anni, storcendo il naso di fronte a quei processi che vedono sempre gli stessi pochi contraenti e cercando invece di conoscere chi fa parte di patti generativi, in cui nuovi contraenti si aggiungono, con profili diversi, sfide differenti da quelle messe a fuoco inizialmente.
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