Beni culturali
La nuova mappa del mondo
Siamo avvolti da sciami di droni, aerei e satelliti. Ronzano, scrutano e tracciano linee. Il circo di Google vortica per poi lasciar cadere il suo tendone sul volto della terra. Il grande direttore e domatore del nostro libero ruggire, ha fasciato il globo con una mappa. Il mondo vero, il nostro mondo, è diventato invisibile. Il mondo del grande circo non è interpretabile e ha la pretesa di essere oggettivo. Ma il mondo, solo, senza lo sguardo di un uomo non può essere. Senza lo sguardo di un uomo, il mondo muore. Il mondo accade solo insieme all’uomo, di fronte all’uomo. L’uomo vede e nomina. E il suo fiato che nomina, riconosce e chiama dà la vera vita. Solo nel dire dell’uomo il mondo è possibile. Soprattutto nel suo raccontare: dire della memoria, dire dell’immaginazione. Dire soggettivo, situato nel tempo.
Il mondo di Google, evidentemente, è un mondo estraneo al racconto, estraneo al tempo: all’immaginazione e alla memoria. Il circo satanico di Google pretende la sepoltura dell’invenzione. E impone: “il vero è il dato: consiste nella risposta da me stabilita ora. Ha un’identità evidente, permanente, misurabile: Accontentatevi!” La nuova mappa del mondo impone la sospensione del dubbio, introduce il reato della riflessione, esilia l’ambiguità. Omologazione, conformismo e rassicurazione: ogni domanda trova sempre una risposta immediata. La scoperta viene scoraggiata: non c’è più nulla da scoprire, ci suggeriscono gli angeli rotanti oltre l’atmosfera. Mi è capitato anni fa di portare un ventenne in una campagna toscana. Sapevo che in Toscana, negli ultimi anni, il numero di lupi era cresciuto. Soprattutto sapevo che i boschi che stavo per presentare a quel ragazzo erano densi di ombre. Sapevo che l’ombra era la loro vera essenza (come può essere misurata un’ombra? Può forse essere sostituita da un segno da appoggiare su una carta geografica?) Allora ho inventato, come altri, prima, avevano fatto con me. Ho presentato una realtà, alterandola leggermente, per aprirla agli occhi di un estraneo: “In questi colli, lì – vedi? In questi colli, ci sono almeno trecento lupi! E la notte…” Il ventenne, prima che io giungessi al punto, ha afferrato il suo rassicuratore: lo smartphone, e mi ha prontamente risposto: “In realtà, ce ne sono 125” Il mistero di quegli alberi si è in un istante bruciato, come il suo spirito. Una cosa simile mi è successa l’anno scorso. Come ogni anno, mi sono diretto verso la mia roccia: Capo Caccia, l’immenso promontorio che protegge Alghero, definendo un golfo e un confine. Avevo un gommoncino. E, di fianco a me c’era una ventenne, questa volta. Quando ho raggiunto la roccia e l’ombra terribile, cupa, ho mostrato alla ragazza l’acqua nera e ho commentato, ripensando a riviste turistiche degli anni ’90, ispirato dai racconti che i miei genitori, nonni e bisnonni mi avevano lasciato sulle mie spalle: “Questo è un mare di squali. Non si può fare il bagno, qui!” Nessuno dotato del vero rispetto della natura avrebbe mai fatto il bagno sotto lo sguardo terrificante di Capo Caccia. Nessuno lo avrebbe mai fatto, prima di Google. Prima di Google, necessariamente l’immaginazione si sarebbe insinuata oltre la banale evidenza. Prima di Google, il mondo non aveva confine, perché sempre, oltre il confine, il nostro chiederci irrequieto poneva qualcosa. La ventenne dell’anno scorso, ha pensato di verificare la correttezza della mia osservazione, ha impugnato il suo smartphone – il fedele testimone della sua bellezza – mi ha sorriso e ha commentato: “Ci sono verdesche di 1 metro qui. E ci sono squali elefante: squali senza denti, inoffensivi – a non meno di 200 metri di profondità.” Mi ha lasciato gli occhiali da sole e, rassicurata, si è gettata in acqua. Il vero mondo, il mondo vago, il mondo incerto dei poeti, sta sparendo e l’uomo nuovo, non più errante, fermo nella nuova ottusa beatitudine – che non chiede alcuna fatica, che non comporta alcun rischio – si lascia orientare dalle curve del compasso di Google, il grande maestro.
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