Beni culturali

Invalsi: la cultura economica nella scuola addestrativa e produttiva

17 Maggio 2018

“Quando avevo 5 anni mia madre mi diceva sempre che la felicità era la chiave della vita. Quando andai a scuola, mi chiesero cosa volevo essere da grande. Io scrissi felice. Mi dissero che non avevo capito la traccia e io risposi che loro non avevano capito la vita” (John Lennon).

Una parte del mondo della scuola ha speso sin troppe parole, negli scorsi anni, sulle prove somministrate dall’ Invalsi, ente preposto alla valutazione del sistema scolastico italiano. A parte analisi tecniche spesso difficili da comprendere anche per chi è del settore, tre sono i cardini su cui si articola più spesso la critica a tali test: l’inutilità di una valutazione in mancanza di interventi correttivi che, in quanto onerosi, sono impossibili in un momento in cui alla scuola italiana vengono tolte risorse, l’inutilità a valutare in modo improvvisato imponendo a studenti ed insegnanti prove estranee al percorso didattico da loro seguito. Lo spreco, infine, di risorse che potrebbero essere più proficuamente usate altrove.

Fortemente criticata quest’anno, poi, è la domanda Q10 in cui ai bambini viene chiesto di fare previsioni sul proprio futuro. É una domanda a cui non viene attribuito un voto, ma che serve, come dicono gli esperti, a profilare il campione, cioè a capire alcuni elementi più legati alla sfera sociale o psicologica dei ragazzi. Analizzando questo questionario, risulta evidente come il comprare cose e avere abbastanza soldi per vivere sono le frasi che più stonano con il messaggio che la scuola dovrebbe veicolare. Bisognerebbe forse distinguere tra il desiderio di migliorare e il volere sempre di più inteso come mera volontà di accumulare cose. Quarto potere narra del magnate Charles Foster Kane che passa la vita ad accumulare cose; schiavo del desiderio di conquistarne sempre di più, arriva a possederne così tante raccolte in scatole accatastate le une sulle altre da non riuscire neppure più a vedere cosa quelle scatole contengono. Kane, giovanissimo erede di una colossale fortuna, viene strappato prematuramente al suo mondo d’ infanzia. Da adulto concepirà l’amore come possesso, non come dono e ciò lo condurrà inesorabilmente alla disperazione e all’isolamento. Forse bambini in grado di saper rispondere a quel tipo di questionario sarebbero anche in grado di cogliere una morale nella visione di questo film.

Quello che in ogni epoca è stato il tratto distintivo dell’essere umano è la ricerca di riconoscimento e di compagnia. Oggi quel riconoscimento passa attraverso la facoltà di possedere denaro: si è tanto più apprezzati quanta più ricchezza si può ostentare e quante più reti di relazioni influenti si possono intrecciare. Volendo proporre un’immagine di umanità legata alla dimensione dell’essere invece che a quella dell’avere, si potrebbe parlare ai bambini della leggenda del re Mida, di un uomo talmente avido da chiedere di poter trasformare in oro tutto ciò che tocca e quando il suo desiderio viene esaudito, sarà prigioniero della sua stessa ambizione poiché trasforma nel prezioso metallo non solo il cibo rischiando di morire di fame, ma persino la figlia. Sarà, perciò, costretto a dover fare a meno persino dei più intimi affetti. Bisognerebbe,quindi, ridefinire il concetto di ricchezza. L’ idea imperante dei nostri tempi è esclusivamente legata al denaro che, come affermava Schopenhauer, promette una felicità astratta che dura finché i soldi li abbiamo in tasca. Sicuramente l’idea di poter acquistare per mezzo del denaro una casa, l’automobile o un bel quadro non è da condannare. Forse, però, dovremmo abituarci a forme di felicità più legate ad una dimensione sociale. Curare un figlio o trascorrere una serata con persone con cui ci sentiamo a nostro agio e con cui abbiamo creato dei rapporti sinceri sono esempi di esperienze appaganti che ci fanno felici. Si è ricchi quando si ha un amico in più, quando si sviluppano doti umane, quando si è capaci di stendere una mano a chi è in difficoltà. Senza fare demagogia, è ovvio che senza denaro la vita può risultare complicata, tuttavia esistono piaceri che non dipendono da quanti soldi abbiamo sul conto corrente, ma da conquiste affettive e intellettuali, da cose che ci siamo saputi meritare.

Spesso la differenza tra la cultura delle persone è visibile dalla quantità di soldi che usano per divertirsi. In vacanza, ad esempio, i turisti più acculturati traggono piacere da una passeggiata, una conversazione, un museo, sanno crearsi momenti di allegria a più buon mercato. Più il nostro tenore di vita diventa alto più diventiamo esigenti, viviamo in una società che ci offre opportunità infinite nella scelta delle cose da accaparrarci e siamo paradossalmente più insoddisfatti. Inquietudine e tormento sembrano caratterizzare il nostro mondo quando le nostre aspettative non sono completamente appagate forse perché nel mondo in cui viviamo tutto viene misurato con il nostro metodo di cittadini del Nord del mondo.

Supponiamo, allora, che quanto proposto dalla domanda 10 de test Invalsi non si verificasse, o che una sola di quelle condizioni non si avverasse, avremmo forse formato un potenziale depresso nel migliore dei casi, un potenziale suicida nel peggiore. Sarebbe necessario, perciò, che la scuola salvaguardasse la creatività culturale non subordinandola ai parametri e ai criteri del mercato dei consumi, che insegnasse a non tarare tutto sul numero e sul volume venduto. La scuola dovrebbe insegnare che un oggetto può dirsi culturale nella misura in cui resiste al tempo, che la sua durevolezza è in proporzione inversa alla funzionalità, sopravvive cioè a qualsiasi utilizzo che abbia presieduto alla sua creazione. L’istruzione dovrebbe, quindi, porre l’enfasi sul fatto che i prodotti culturali non sono fatti per essere usati e consumati. La cultura persegue la bellezza che non risiede nella moda del momento, la bellezza di un quadro così come quella di un paesaggio richiedono la capacità di essere percepita. Affinare quella capacità è compito della scuola.

Una cosa bella è una cosa eterna sottolineava Keats. A tale proposito, non tradendo quella che dovrebbe essere la sua naturale vocazione, la scuola dovrebbe promuovere l’idea che non è solo un titolo di studio che decreta la capacità individuali e che raggiungere un titolo di studio è solo una tappa di un processo di apprendimento. La formazione e l’apprendimento devono essere continui, devono abbracciare l’intero arco della vita, la formazione dell’io non è pensabile se non come riformazione costante. Una scuola all’ avanguardia dovrebbe offrire proposte in cui siano evidenti l’ esercizio di valori cardini per un effettivo empowerment: la costruzione di legami tra gli esseri umani, la capacità di impegnarsi in un dialogo, di negoziare, di giungere ad una reciproca comprensione e saper gestire e risolvere i conflitti inevitabili in ogni contesto di vita sociale.

La scuola che si muove in un campo ristretto di opzioni come quelle proposte dai test Invalsi è la scuola creatrice del pensiero unico, arroccata sull’olimpo delle sue certezze, avulsa da qualsiasi richiamo comunitario, una scuola dal sapere frammentato e settoriale, basata su istruzioni che mortificano il dispiegarsi di energie e creatività individuali. È una scuola che crea clienti confusi dal turbinio dei prodotti, pronti ad acquistare quello che il mercato ci ha garantito essere lo oggetto del momento.

Il mercato nero della vendita di certificazioni dimostra che il consumo si è adattato alla cultura del casinò che a sua volta si è adattata alle pressioni e alle seduzioni del mercato, i due procedono a braccetto, si intendono alla perfezione, si alimentano a vicenda. Viene da chiedersi quale spazio è ancora riservato all’ uomo persona sia esso un insegnante o alunno. Perdere di vista l’educazione significa porre le premesse di una società disorientata e indifferente, nella quale prevalgono l’individualismo e l’utilitarismo. Una vera educazione produce invece valori, dinamismo, impeto, volontà di cambiamento, apertura agli altri.

La scuola voluta dagli ultimi governi, invece, è caratterizzata da una burocrazia ministeriale che non riesce a stare ferma e, per esercitare il proprio potere, ha bisogno sempre di riforme, commissioni di studio, sperimentazioni e circolari che aboliscono a Settembre quello che era stato deciso a Maggio. È una scuola che ha prodotto l’adozione di rigorosi protocolli di programmazione riguardanti tempi e pratiche formative e formule organizzative mutuate dal management aziendale, ha creato la verifica standardizzata della qualità degli apprendimenti scolastici e soprattutto ha enfatizzato la dimensione professionale del ruolo docente, lasciando sotto tono altri aspetti come quelli vocazionali e intersoggettivi, spesso ritenuti residui di un modello scolastico paternalistico e ideologico.

L’educazione non è qualcosa di avulso dal contesto culturale e sociale, essa esiste e si struttura all’interno di esso. Sarebbe impensabile, perciò, vivere in una società che ci abitua a stare comodi  proponendo come modello credibile San Francesco D’Assisi o Maria Teresa di Calcutta. Senza dove essere estremisti, basterebbe che l’educazione facesse propria l’idea di stato sociale, incarnazione istituzionale dell’idea di comunità intessuta di dipendenza reciproca, impegno e solidarietà sociale. Lo stato sociale non è inteso o pratcato come alternativa al principio di libertà del consumatore. I paesi con principi e istituzioni di welfare fortemente consolidati sono, infatti, quegli stessi che evidenziano alti livelli di consumo. Lo scopo dello stato sociale è quello di proteggere la società dagli effetti di un ingrossamento delle file delle vittime collaterali del consumismo. Evitare lo sgretolamento della solidarietà umana e l’estinzione del sentimento di responsabilità etica è uno dei compiti che la scuola e la società tutta deve perseguire. Il modello scandinavo e la pratica socialdemocratica dei paesi nordici dimostra che gli sforzi per raggiungere una società più coesa procede di pari passo alla capacità di adattamento strutturale ai cambiamenti socio-economici mondiali e all’ innovazione.

La scuola è un ponte che attraversa l’essere umano, lo aiuta a crescere e lo traghetta verso il progetto di vita che desidera. Proprio come la capacità di carico di un ponte non viene calcolata in base alla forza media dei suoi pilastri, ma in base alla forza del suo pilastro più debole e da quella forza viene incrementata, così le risorse di una società, scuola compresa, dovrebbero essere calcolate in base alla sicurezza e alla fiducia nei propri mezzi delle sue fasce più deboli.

Tutto ciò è molto lontano dallo spazio sacrificante di una crocetta, di un quadratino e dalla possibilità di scelta che si esercita in un campo delimitato da una visione ristretta ed ottusa quale quella proposta dalle prove Invalsi. Personalmente ritengo, come afferma Bruner, che la scuola debba  coltivare e sviluppare  la propria capacità narrativa evitando di darla per scontata, si sarà in grado, così, di recuperare all’interno dell’azione scolastica la dimensione del senso e del significato che i saperi hanno per la formazione dell’identità personale.

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