Beni culturali

Il teatro al bar: tradizione o innovazione?

3 Novembre 2015

A cura di Riccardo Mallus e Davide Lorenzo Palla

Oggi siamo qui per parlarvi di Tournée da bar: questo progetto, al momento tra i finalisti del bando Che Fare, porta dei veri e propri spettacoli teatrali in giro per bar, circoli e locali d’Italia attirando su di se l’interesse di un grande numero di spettatori. Nei quattro anni di attività, dal 2011 al 2015, ha coinvolto nuovo pubblico e di conseguenza ha ottenuto l’attenzione di addetti ai lavori, critici teatrali ed esperti in comunicazione.

La forza dell’iniziativa consiste nella capacità di attirare nuovi spettatori e nella specifica forma di fruizione e distribuzione degli eventi teatrali, in grado di portare cultura e intrattenimento in luoghi non convenzionali per il contesto attuale. La prospettiva di ricaduta è quindi duplice: aprire uno spiraglio di rinnovamento per il sistema attuale, inteso come modalità di fruizione dell’arte teatrale, e favorire di conseguenza l’incontro con nuovi fruitori attratti da questa anomala modalità di rappresentazione e messa in scena.

Ma la modalità proposta è realmente nuova?

Per rispondere a questa domanda e per comprendere appieno il progetto e lo stato del sistema attuale conviene affrontare l’argomento andando per ordine, magari aiutandoci con qualche cenno storico. Faremo un breve viaggio nel tempo per capire come si è organizzata l’arte teatrale e come si è sviluppato il rapporto tra spettacolo e spettatori nella storia dell’uomo.

Per iniziare occorre innanzitutto chiarire che “nel corso dei millenni la posizione e i compiti del teatro drammatico nella convivenza sociale subiscono profonde evoluzioni. Le strutture e in particolar modo le ideologie dominanti gli impongono determinati atteggiamenti, lo conducono a svolgere determinate funzioni” (Storia del teatro drammatico, di Vito Pandolfi. UTET 1964. Pag. 849)

Teatro Greco

Il teatro primordiale nasce dal rito e ad esso rimane legato. Con ogni probabilità in origine gli spettacoli erano strutturati come cerimonie collettive: riti di gruppo in cui quasi non esistevano differenze tra attori e spettatori, ma esisteva solamente, appunto, la cerimonia. Poco alla volta, avvicinandosi all’età classica, si definirono i ruoli, e queste cerimonie subirono un’evoluzione nella forma, organizzandosi attorno ad un racconto, sempre ripreso da miti religiosi. Nel pieno della classicità greca queste cerimonie divennero vere e proprie feste in onore di Dioniso, dio della natura primordiale.

Gli spettatori partecipavano al rito, con afflato religioso, e lo vivevano come occasione di purificazione e catarsi. Con il passare dei secoli l’architettura di spettacolo – ovvero come si organizza l’evento teatrale e la sua fruizione – si andò specificando sempre di più e vennero edificati luoghi pubblici per accogliere gli spettacoli e gli spettatori: i grandi teatri della magna Grecia.

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Questa architettura di spettacolo portò alla definizione di alcuni elementi scenici atti a rendere la fruizione il più possibile efficace e coinvolgente: maschere per aiutare la voce ad arrivare il più lontano possibile, abiti per chiarificare i personaggi, calzature per rialzare gli attori e renderli visibili anche da grandi distanze, scenografie per aiutare lo svolgimento della vicenda, molto spesso finanziate e realizzate dai cittadini, i quali, divisi in gruppi, vivevano l’atto teatrale come una vera e propria gara.

In sintesi: il teatro, nella Grecia classica, si conformava come un’enorme festa collettiva dalla valenza religiosa, in cui il pubblico era direttamente coinvolto a partire dalla realizzazione delle scenografie fino ad arrivare al momento della fruizione catartica. Il pubblico era parte dell’atto teatrale stesso e il teatro era una cerimonia collettiva con il pubblico e per il pubblico.

Teatro Romano

Le origini del teatro nella civiltà latina, invece, non si collegano a manifestazioni religiose.

La natura teatrale del periodo romano era parodica: costituiva l’evoluzione di una serie di motivi etrusco campani, o ellenici, sul cui tronco si inserirono la riproduzione di aspetti centrali della società romana.

I cittadini erano coinvolti in rappresentazioni il cui perno era la parodia della società e in cui il fattore dell’improvvisazione costituiva la molla propulsiva. Anche nel teatro romano gli attori si aiutavano con l’ausilio delle maschere, ma queste assunsero uno scopo specifico: identificare i canoni comportamentali studiati e riprodotti dalla vita popolare; fecero così la loro comparsa sulle scene personaggi tratti dai caratteri cittadini. Sempre Pandolfi afferma che “appena la religione e il mito non riscuotono più credito, si dà luogo alla commedia di costume e di carattere, in cui ama rispecchiarsi il ceto medio della città.” (pag. 849)

Nei teatri romani, simili a quelli greci ma non sempre edificati in prossimità di una collina, vennero aggiunti elementi nuovi: il sipario, utile a nascondere, quando necessario, la scena; e portici e androni, finalizzati all’intrattenimento del pubblico durante le pause della rappresentazione.

Il teatro divenne uno spazio di svago, e benché l’architettura di spettacolo rimase simile alla Magna Grecia, la funzione sociale mutò radicalmente: la fruizione teatrale in epoca romana era prettamente cittadina e mondana.

Teatro volgare e sacre rappresentazioni

Nei successivi secoli di avvicinamento al medio evo la passione teatrale continuò a svilupparsi in diversi ambiti sociali e le commedie latine influirono fortemente sullo sviluppo delle commedie in una precisa direzione.

Nelle corti, aperte a ogni tipo di rapporto umano, il pubblico dell’epoca si avviava a divenire il protagonista degli anni rinascimentali. Gli spettacoli più conosciuti vennero imitati, elaborati, tradotti e ridotti per essere rappresentati: il grande teatro venne emulato da piccole realtà e gruppi cittadini che cominciarono a improvvisare spettacoli nelle campagne, nelle strade e nelle piazze italiane, avvalendosi di un linguaggio volgare o dialettale così che fosse comprensibile per la cerchia di conoscenti ai quali erano destinate le rappresentazioni.

Ora però, in questo nostro viaggio, non possiamo ignorare il rapporto complesso e spesso conflittuale che il teatro ebbe con la chiesa cattolica. L’atteggiamento della chiesa verso le rappresentazioni influenzò in maniera determinante il panorama teatrale dell’epoca. Il clero oscillò tra un rigorismo che condannava ogni genere di esibizione, e il proposito – tra l’altro non attuato che parzialmente – di rendere l’attività teatrale strumento religioso, negandone l’autonomia artistica e servendosi strumentalmente dei suoi mezzi.

Inizialmente i protagonisti delle rappresentazioni furono gli ecclesiastici stessi e i loro accoliti; in seguito anche la popolazione venne coinvolta in quelli che, partendo dai sagrati delle chiese, divennero veri e propri spettacoli itineranti in cui si evocavano vicende tratte dalle sacre scritture.

Quando però le rappresentazioni iniziarono a diventare occasione di festa e di svago, e la collettività – più interessata all’evento festivo che non ai temi religiosi – propose proprie formule di spettacolo e intrattenimento, sorse un problema.

L’intervento della chiesa fu allora risolutamente ostile: vennero fermamente condannate le rappresentazioni popolari allestite in occasione delle festività.

Come suo solito però, il teatro, espressione dell’indomabile necessità umana di raccontare e rappresentare storie, cercò una nuova architettura di spettacolo per continuare nel suo inarrestabile percorso.

Si affermarono le forme della giullaria e del saltimbanco, e si arrivò all’esplosione del fenomeno conosciuto come commedia dell’arte.

Commedia dell’arte, compagnie di giro e teatro in strada

La forma teatrale diffusa nell’Italia dal 1500 era, appunto, la commedia dell’arte. Gli attori indossavano delle maschere la cui funzione era chiarire da subito al pubblico quali fossero i personaggi e i caratteri presenti in scena; recitavano improvvisando su dei canovacci, ovvero storie comiche in cui venivano messi alla berlina i caratteri presenti nella società del tempo – i contadini, i dottori, i mercanti e i nobili – e venivano chiamati saltimbanchi. Saltimbanchi perché, letteralmente, saltavano sui banchi di vendita presenti nei mercati cittadini e nelle fiere itineranti per recitare le loro storie.

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Il tutto aveva l’aria di essere improvvisato, ma di improvvisato c’era poco, se non le scene. Spesso e volentieri c’era un accordo esplicito tra le compagnie di comici e i venditori del mercato, perché la prossimità tra attori e venditori era un comune vantaggio: i venditori, con uno spettacolo di commedia dell’arte dappresso, si assicuravano un’affluenza di potenziali acquirenti di gran lunga maggiore rispetto alla media, e i comici, in una dinamica di baratto, ricevevano in cambio dai mercanti la diaria minima per il sostentamento; inoltre il pubblico, oltre ad acquistare per sé, se gradiva lo spettacolo acquistava merci e cibo anche per donarli ai comici, raddoppiando in un colpo solo il guadagno sia dei mercanti che della compagnia d’attori.

Gli attori si riunivano in compagnie di giro, che, dirette da un capocomico e a direzione quasi sempre familiare, giravano i comuni e i principati in cerca di fiere e mercati dove esibirsi, non disdegnando le corti nobiliari. Il teatro infatti era molto amato dai nobili dell’epoca, che accoglievano volentieri le compagnie di giro.

Inoltre è importante ricordare che la definizione commedia dell’arte è di natura tardo medioevale, e che di conseguenza arte va intesa propriamente come mestiere, professione; quello del teatrante, in sostanza, era un vero e proprio lavoro riconosciuto in quanto tale dalla collettività.

Teatro Elisabettiano (Shakespeare e il Globe Theatre)

In Inghilterra, quasi contemporaneamente, il teatro ebbe un’evoluzione leggermente diversa, seppur con alcuni elementi di somiglianza. Le compagnie di giro britanniche elessero come luogo di rappresentazione i cortili cittadini e le corti interne alle abitazioni, dove era più facile farsi sentire da un numero maggiore di persone. Oggi potremmo immaginare degli spettacoli recitati all’interno dei cortili delle case di ringhiera, con le persone disposte sia davanti il palcoscenico che su tutte le ringhiere, ad ascoltare più che a vedere; perché in epoca elisabettiana la fruizione dell’atto teatrale era molto caotica e affidata principalmente all’udito. Come spiega Luca Fontana, nell’introduzione alla sua traduzione di A Midsummer Night’s Dream, il pubblico dell’epoca “diceva <<I’m going to hear a play>>, vado a udire un play, non a vederlo” (pag 23, introduzione Sogno della prima notte d’estate, edizioni Il Saggiatore 2011).

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Il famosissimo Globe Theatre, quindi, venne costruito a partire da un’architettura di spettacolo che presupponeva una fruizione, da parte del pubblico, popolare e libera. Occorre ricordare, a tal proposito, che il Globe durante gli spettacoli era un luogo per nulla tranquillo e silenzioso, anzi: il pubblico beveva, mangiava, rumoreggiava, e ascoltava; ma solo se gli attori erano così bravi da catturare l’attenzione e le emozioni, e la storia così bella da interessare e rapire l’orecchio.

L’europa tra il ‘500 e il ‘700, la nascita dell’autore

L’incontro del mondo cinquecentesco con quello turbinoso delle forme teatrali tardo medioevali diede un impulso decisivo allo sviluppo del teatro italiano. Avvenne una velocissima evoluzione che interessò i diversi aspetti dell’arte teatrale: la creazione e differenziazione dei generi, la nascita di una nuova concezione della recitazione, la costruzione di edifici pensati appositamente per la rappresentazione, l’evoluzione dei testi, emancipati dalla funzione di puro e semplice pretesto ed elevati a testimonianza letteraria di rinascita del gusto culturale.

Tra la fine del XV°secolo e la metà del successivo, in un periodo di tempo che corrisponde all’arco di una vita umana, si venne a istituire l’arte del teatro – per come la conosciamo – nelle sue fondamenta, sulla base di una società nel quale l’elemento borghese, se pur lentamente, si muoveva verso l’egemonia.

In un contesto storico – dal ‘500 al ‘700 – in cui le arti e la cultura ebbero in tutta Europa sviluppo e fortuna, anche il teatro si diffuse e sviluppò, oltre che le forme di racconto, la propria organizzazione: le compagnie si strutturarono sempre più solidamente attorno ad un capocomico esperto che guidava, anche artisticamente, l’ensemble; le rotte del teatro si definirono anche in base alle occasioni più ghiotte di guadagno, offerte come abbiamo visto dalle fiere o dai mecenati; e fece la sua comparsa una nuova figura nel lavoro teatrale. Che fosse una persona esterna al mondo del teatro che si dilettava in scrittura drammatica, come ad esempio Tirso da Molina, o un attore-capocomico con capacità poetiche, come Molière o lo stesso Shakespeare, comparve la figura dell’autore, che scriveva le commedie e i drammi che venivano poi recitate dai comici.

E con il passare del tempo, anche l’autore teatrale, detto drammaturgo, diventò un mestiere.

Dobbiamo a questo felice momento di evoluzione dell’arte teatrale anche la nascita dei teatri privati, a pagamento: luoghi esclusivamente dedicati alla rappresentazione teatrale, dotati di palcoscenico, platea e un abbozzo di scenografie dipinte, ai quali era possibile accedere solo pagando all’ingresso.

Goldoni e il teatro privato

A metà del XVIII° secolo a Venezia erano presenti molti teatri privati, tutti molto frequentati. In uno di questi, il Teatro Sant’Angelo, era attiva la compagnia dell’impresario Girolamo Medebach, che aveva da poco assunto Carlo Goldoni come drammaturgo e poeta di compagnia. La concorrenza tra teatri e compagnie era spietata, così, all’inizio del 1750, il maestro Goldoni accettò un’idea promozionale del suo impresario e sfidò il pubblico con una scommessa: avrebbe scritto 16 commedie in un solo anno, e sarebbero state una più bella dell’altra. La storia racconta che Goldoni vinse la scommessa, Medebach probabilmente si arricchì e il pubblico poté assistere alla messa in scena di molti capolavori, uno più bello dell’altro.

Ma il pubblico non era facile da conquistare. Nonostante i teatri dove si recitava fossero ormai già simili ai teatri all’italiana che conosciamo oggi – il teatro San Luca, dove Goldoni stesso venne assunto nel 1753, è l’attuale Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni – le abitudini del pubblico erano molto diverse da quelle odierne: la platea era un luogo dove sovente scoppiavano alterchi tra chi criticava uno spettacolo e chi invece lo seguiva rapito.

E non era una caratteristica solo italiana: in Francia, alla fine del secolo, nel periodo più radicale della rivoluzione francese, sono stati molti i teatri chiusi per rissa. Un testo, o un’interpretazione attoriale più o meno riuscita, dovevano sempre confrontarsi con platee per nulla addomesticate – oggi diremmo educate -; il teatro era una continua sfida al pubblico, e il pubblico non regalava neppure una briciola della propria attenzione che non fosse conquistata.

Teatro borghese e nascita della regia

Quest’architettura di spettacolo perdurò, e perdura tutt’ora. Quello che noi oggi definiamo comunemente teatro, in Italia, è lo sviluppo della forma che si è strutturata dalla fine del XVIII secolo: rappresentazioni sceniche di storie, con il pubblico seduto e gli attori sul palcoscenico, spesso rialzato e fortemente diviso dalla platea antistante.

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Sempre Pandolfi scriveva, negli anni ’60, che “per compiere un salto qualitativo nei confronti del dramma borghese, occorrerebbe innanzitutto che si configurasse una nuova concezione e forma dello spettacolo […] Il dramma si sta trasformando in strumento di ricerca nei confronti della realtà psicologica e sociale”.

Ma andiamo con ordine.

Questa forma teatrale ereditata dal XVIII secolo, col passare del tempo portò a un’evoluzione delle rappresentazioni e degli spettacoli: fecero la loro comparsa i cosiddetti drammi borghesi, in cui la vita quotidiana divenne protagonista, e sorsero nuove necessità scenografiche. Lo spazio scenico, fino ad allora molto semplice, diventò tanto più importante tanto più specifica diventava la scrittura dei testi ambientati in interni familiari. Anche l’attenzione del pubblico ebbe un’evoluzione: mutò, diventando più paziente e più concentrata.

Merita una menzione, in questo mutamento dei gusti, della fruizione e della creazione teatrale, l’esperienza della Compagnia di Meininger. Fu una compagnia teatrale fondata dal duca Giorgio di Meininger nel 1870, diretta dal medesimo fondatore. Ma il ruolo del duca non si limitava alla direzione della compagnia: si conformava come un vero e proprio proto-regista. Il repertorio era tratto dai grandi autori classici, e l’allestimento scenico era scrupoloso e molto preciso. Il duca dirigeva le prove, ricercando e ottenendo un’elevazione del tono della rappresentazione. Impediva che gli spettacoli si strutturassero intorno all’abilità di uno o due attori, pretendendo un totale accordo artistico tra le diverse parti, maggiori e minori: non lasciava l’interpretazione dei ruoli maggiori all’estro degli attori che li interpretavano ma la accordava con quella dei ruoli minori, cosicché tutta la visione dello spettacolo assurgesse alla più perfetta armonia.

La compagnia di Meininger ebbe molto successo, arrivò a Berlino e varcò perfino i confini dell’impero: fu chiamata a recitare a Londra, Budapest, Mosca, Copenaghen, Amsterdam, Stoccolma. Ma nel 1890 il duca, essendosi reso conto che il nuovo gusto naturalista non si accordava più con l’afflato della sua compagnia, la sciolse.

L’architettura di spettacolo derivante dalle trasformazioni del ‘700, dopo aver modificato la fruizione dell’atto teatrale, venne a sua volta influenzata da un mutamento dei gusti nell’arte e nella cultura. Autori come Ibsen prima, e Cechov poi, si inserirono perfettamente nell’alveo del dramma borghese, e iniziarono a scandagliare gli anfratti dell’animo umano, individuale e sociale.

E’ in questo periodo, che nasce l’esigenza, sempre più netta, di una figura di raccordo tra l’autore e l’attore, tra il testo scritto e la rappresentazione scenicamente agita: appare la figura del regista “anello di congiunzione e di mediazione, che da un lato rende concreta la realtà del testo scritto, dall’altro suscita e ispira la coscienza artistica dell’attore e dello scenografo, suggerendole i suoi movimenti e la sua interpretazione della realtà, a volte illuminandola a lampi, a volte preparandone le fondamenta e a volte, nella sua fase più tesa, istituendo nuovamente quella realtà che evoca il testo scritto” (Storia del teatro drammatico, di Vito Pandolfi. UTET 1964. Pag. 237)

Le prime figure che possiamo definire registi teatrali si concentrano e lavorano su differenti aspetti della creazione teatrale, a seconda soprattutto del paese di attività e della drammaturgia di riferimento. Kostantin Sergeevič Stanislavskij, in Russia, dopo una lunga carriera attoriale, si concentra sullo studio della recitazione, soprattutto in riferimento alla drammaturgia naturalista, alla ricerca della verità in scena. Adolphe François Appia, in Svizzera e nelle nazioni limitrofe, sviluppa una personale teoria, dovuta ai suoi studi e alla sua pratica di scenografo, in cui abbandona la centralità dell’attore a favore dell’apparato scenografico e illuminotecnico. Erwin Friedrich Maximilian Piscator, di nazionalità tedesca, fu invece un regista puro: le sue messe in scena erano ricche di macchinari scenici complessi e costruzioni, atte a restituire in gesti simbolici degli attori i concetti portanti dei testi che metteva in scena, i quali spesso erano finalizzati ad una critica sociale d’impostazione marxista, con l’obiettivo dichiarato di risvegliare la coscienza degli spettatori. Lo si ricorda anche per essere l’inventore, in collaborazione con Walter Adolph Gropius, del Teatro Totale, una struttura dove lo spettatore è coinvolto all’interno di una macchina teatrale tecnologicamente avanzata.

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In Inghilterra Edward Henry Gordon Craig coprì quasi tutti i ruoli del lavoro teatrale: attore, regista, scenografo, produttore; fu teorizzatore del Teatro del Divino Movimento, in cui anelava alla creazione di una forma di teatro in cui i singoli elementi attoriali, scenografici e drammaturgici, si traslassero in qualcosa di più alto: le sue messe in scena erano perlopiù fortemente simboliche e attingevano volentieri al repertorio classico.

Nonostante le molte differenze d’impostazione e approccio la figura del regista in breve tempo assume sempre più importanza, fino a diventare – come sosteneva Craig – il vero artista del teatro.

Dal capocomicato ai teatri stabili (dai mattatori capocomici al teatro di regia)

In Italia la regia teatrale arriva con un discreto ritardo. All’inizio del XX secolo è ancora in auge la figura del capocomico, ereditata dalla tradizione che affonda le sue radici nella commedia dell’arte e nel teatro d’attore. Le compagnie, quasi sempre di giro, sono strutturate ancora in ruoli predefiniti, è presente il suggeritore e la parte principale spetta sempre al grande attore mattatore: il fulcro dello spettacolo è lui, e gran parte delle energie della compagnia sono impegnate a esaltarne le capacità.

A partire dagli anni ’30, però, anche in Italia si inizia a parlare con insistenza di regia teatrale.

A scopo esemplificativo accenniamo all’esperienza maturata e difesa da Luchino Visconti subito dopo la guerra: nel 1945 mette in scena I parenti terribili di Cocteau, e l’anno dopo fonda la compagnia Morelli-Stoppa, rivoluzionando di fatto il modo di far teatro in Italia: cancella il sistema dei ruoli; aumenta i giorni di prove istituendo le prove a tavolino; elimina il suggeritore, pretendendo di conseguenza dagli attori la memoria perfetta del testo; progetta scenografie diverse e specifiche per ogni spettacolo; pretende altresì dal pubblico di essere puntuale, di non applaudire all’entrata il grande attore e di non disturbare la rappresentazione.

Inoltre chiede allo stato italiano dei finanziamenti per la sua compagnia, in favore di un progetto “di impegno culturale e con fini artistici”.

Ma non è un caso isolato: l’anno successivo viene fondato il Piccolo Teatro di Milano.

I cittadini milanesi hanno ora il loro teatro. Infatti gli amministratori del loro Comune hanno deliberato che il teatro del palazzo comunale del Broletto […] non venga più concesso in gestione a privati ma sia invece adibito a teatro di prosa […] Nasce così il “Piccolo Teatro della città di Milano”, il primo teatro stabile di prosa tolto all’impresa privata a carattere speculativo. […] Su questa strada, nasceranno domani molti altri teatri municipali in Italia.

Dal “Politecnico” gennaio – marzo 1947

Fondato nel gennaio del 1947 da Mario Apollonio, Paolo Grassi, Aldo Valcarenghi, Virgilio Tosi, Nina Vinchi e Giorgio Strehler, e inaugurato il 14 maggio dello stesso anno, il Piccolo Teatro di Milano, come nelle intenzioni dei suoi fondatori e degli amministratori dell’epoca, è stato l’apripista dei teatri stabili: teatri finanziati dallo stato allo scopo di fornire un teatro d’arte per tutti. Obiettivo dichiarato, nei confronti del pubblico, era reclutarlo (sic) “quanto più possibile, nelle scuole e nelle maestranze, con forme d’abbonamento che sollecitino e aiutino l’assiduità dell’intesa. Non dunque teatro sperimentale, aperto sull’indefinito, sul possibile e sull’impossibile; e nemmeno teatro d’eccezione, chiuso in una cerchia d’iniziati.” (sempre dal medesimo articolo del Politecnico)

I teatri stabili, capitanati dai poli di Milano, Torino e Genova, diventano nel primo ventennio del dopoguerra lo scheletro del sistema teatrale italiano.

Vista la conformazione della maggior parte dei teatri – platee buie e nettamente divise dal palcoscenico, che permettono una visione molto attenta da parte del pubblico e una gestione dello spettacolo teatrale molto specifica e particolareggiata – la regia ha sempre più spazio e sviluppo, e il regista, anche in Italia, diventa il “dominus” artistico. Nasce e si sviluppa il grande teatro di regia italiano, dove si coniugava l’ambizione poetica, l’intrattenimento e la critica civile.

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Sistema teatrale attuale

Nel 1985 nasce il FUS, il Fondo Unico per lo Spettacolo, con il quale lo Stato regola l’intervento pubblico di finanziamento a favore degli enti di spettacolo dal vivo. Il teatro di prosa rientra in questa regolamentazione, e il sistema retto dagli stabili di allarga e si specifica: nascono i teatri stabili pubblici, privati e d’innovazione. Negli ultimi 15 anni circa però la continua contrazione del FUS, e dei relativi finanziamenti per il teatro di prosa, hanno provocato diverse difficoltà, sistemiche e specifiche. Si può dire, in breve, che il sistema teatrale italiano è entrato in crisi.

Recentemente inoltre, con un decreto ministeriale del 1 luglio 2014, il governo ha messo mano, con decisione, alla definizione degli enti di prosa a iniziativa pubblica, modificandone le categorie e le conseguenti regole per accedere al finanziamento. Scompare così dal decreto il nome di Teatro Stabile e ne compaiono altri, come Teatro Nazionale e Teatro di Rilevante Interesse Culturale. La suddetta riforma però non è stata accolta con unanime favore dai lavoratori del teatro di prosa, come testimoniato dal Discorso sulla perdita di senso del teatro, di Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini, tenutosi il 2 ottobre 2015 presso il Teatro Magnolfi di Prato.

Ecco alcuni estratti dell’introduzione:

”In segreto, molti di noi non sono più certi che il teatro abbia una funzione e il diritto di esistere nel mondo d’oggi. La riforma ministeriale, con i suoi tagli e la sua impostazione strutturale, ha fatto intravedere il piano che la sottende, quello di una progressiva dismissione del finanziamento pubblico al teatro. […] Per lo Stato il teatro non ha già più una funzione pubblica, e molti di noi, anche per la cattiva coscienza del lavoro svolto, non contraddicono o non vogliono prendere nota di questa affermazione.”

Come si evince si sono formate posizioni molto critiche nei confronti del decreto ministeriale sopracitato, la situazione è per noi di difficile lettura, ma quel che è certo è che viviamo un periodo che appare molto problematico.

Resta valida la riflessione con la quale Vito Pandolfi chiude la sua trattazione sulla storia del teatro drammatico: “Il teatro, estremo impegno della coscienza personale e di quella collettiva in un finale impulso biologico, non dovrà essere altro, nelle attuali condizioni di esistenza, che un’inesauribile nostalgia? […] L’evoluzione sia del dramma che dello spettacolo teatrale (due direzioni diverse e non sempre convergenti) sembra doversi svolgere all’ombra dell’evoluzione civile che si sta delineando. Ne riflette le fasi contraddittorie, l’evidente dialettica, così come vi si rispecchiano le psicologie del gruppo sociale. Le sue possibilità d’iniziativa per ora non sono autonome che a tratti, attraverso l’insorgere di taluni movimenti e prospettive di nuove forme spettacolari” (pag. 853)

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La proposta di Tournée da bar

Rispetto a tutto questo Tournée da Bar nasce con uno scopo: andare alla ricerca delle persone, e raccontare loro delle storie. Per farlo ci siamo posti pochi interrogativi. Dopo esserci resi conto che in alcuni casi i bar sono più frequentati dei teatri abbiamo provato a portare il teatro al bar. Nel farlo, dopo qualche anno, ci siamo chiesti quali fossero le storie alle quali potevamo affidare il nostro teatro e i nostri novelli spettatori, e abbiamo deciso di provare a incontrare Shakespeare, il quale pare ci abbia accolti con calore. Non sappiamo chi incontreremo dopo Shakespeare, ma di sicuro continueremo ad andare alla ricerca delle persone per raccontare loro delle storie.

Conclusioni e nostro punto di vista

Tornando alla domanda del titolo, Tournée da Bar innova la forma teatrale o si aggrappa alla tradizione? La risposta non è scontata.

E’ vero, come scrive Oliviero Ponte di Pino in Milano. Tutto il teatro, di cui è coautore con Maddalena Giovanelli, che Tournée da Bar inizia come “la mossa del cavallo di un giovane attore e capocomico che fatica a trovare spazio nei teatri ‘normali’ e dunque si inventa una distribuzione alternativa e sostenibile fuori dai circuiti ufficiali.”

E’ altresì vero, però, che questa mossa del cavallo ha portato molte scoperte, e ha aperto molte domande.

Perché più lavoriamo a questo progetto, in una ricerca sempre più approfondita di collaborazione con i bar che ci ospitano – come fossero mercanti del ‘500 e noi saltimbanchi -, in contatto costante con un pubblico non educato in un luogo non adatto; un contatto che costringe ad usare tutte le armi dell’arte teatrale per comunicare, con la volontà di mirare alto, difendendo non solo l’intrattenimento, ma anche la parola poetica (oggi di Shakespeare e domani chissà) un contatto che è una specie di sfida e di scommessa con noi stessi e col pubblico; più andiamo avanti e più ci rendiamo conto che, anche senza volerlo, attingiamo a formule che sono già esistite nell’arte teatrale, magari secoli fa, e che funzionano ancora.

E allora, tra le tante domande, ci chiediamo se davvero questa mossa del cavallo sia stata solo un salto fuori dai circuiti ufficiali del teatro italiano odierno, o se possa rappresentare – magari solo per noi – qualcosa di più: uno spiraglio, una possibilità che il nostro amatissimo teatro italiano possa curare la sua inesauribile nostalgia, alla ricerca di un pubblico che gli restituisca quel senso e quella necessità umana e sociale che a volte può apparire fragile e che nei teatri, oggi, fatichiamo spesso a trovare.

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