Beni culturali
Ecce Caravaggio di Sgarbi: un amore eterno e ritrovato
L’ultimo libro di Sgarbi “Ecce Caravaggio” raccoglie tutti i contributi di studiosi per dimostrare che il quadro “Ecce homo” battuto ad un’asta a Madrid sia da attribuire a Caravaggio.
In realtà Vittorio Sgarbi ha avuto la primazia nella diffusione di questa notizia.
Tutto comincia-scrive Sgarbi-con la segnalazione dubbiosa di un amico, che si divide tra Madrid e Lavello, che il 25 marzo mi manda un’immagine e un sibillino messaggio: “Buongiorno prof, ho intercettato questo dipinto, ho un magnate dell’antiquariato che preme per l’acquisto a cifre significative, sto cercando di capire perché. Io avrei individuato un giovane Mattia Preti o altro pittore romano intorno al 1630, ma io sono io e tu sei la massima autorità in questo campo. Mi dici spassionatamente che ne pensi? Nel caso il magnate lo acquistasse saresti disposto a expertise? Ovviamente sempre che il nome del pittore valga l’expertise di Sgarbi… Tuo discepolo Antonello Di Pinto.”
Si rende conto Sgarbi che il dipinto sia assolutamente autentico e senza dubbio da attribuirsi a Caravaggio.
L’emozione è immediata, e deriva dall’assoluta semplificazione del dipinto e da una sua potente brutalità, che respinge in un limbo attributivo l’Ecce Homo della Galleria di Palazzo Bianco a Genova, riferito a Caravaggio, dopo alcune esitazioni, da Roberto Longhi (L’‘Ecce Homo’ del Caravaggio a Genova, in “Paragone”, 51, 1954).
Sgarbi ci riferisce la notizia secondo cui si apprende dal Baldinucci, nel suo testo edito nel 1702, che Caravaggio “dipinse per i Massimi un Ecce Homo, che poi fu portato in Ispagna, ove pure furon mandate altre sue opere, e per altri molti Quadri ebbe a fare, a cagione dell’essersi ormai tutta Roma impegnata nel gusto di sua maniera.”
Che il quadro fosse in Spagna lo si deriva anche dal nome della famiglia proprietaria della tela, i Pérez de Castro.
Compulsando le carte, è emerso che, nel 1823, il politico e diplomatico Evaristo Pérez de Castro, da cui discendono gli attuali proprietari, permutò un dipinto in suo possesso con uno a scelta fra quattro, appartenenti tutti alla Real Academia. E la scelta, fatalmente, cadde su un “Ecce-Homo con dos sayones: de Carabaggio”, così come risulta catalogato più volte tra il 1817 e il 1821 presso la prestigiosa istituzione. Abbiamo così una prima, importante conferma dell’intuizione di riconoscere nell’Ecce Homo riapparso un’opera di Caravaggio.
Fu stimato all’asta nel marzo aprile per circa 3 mila euro, ma il suo effettivo valore, quando incominciarono a circolare tra gli estimatori, critici e galleristi d’arte, via whatsapp le foto, è salito a circa 15 milioni di euro ed il dipinto è stato ritirato per eccesso di interesse.
Secondo Sgarbi l’Ecce Homo che abbiamo di fronte è in presa diretta. Brutale e terribile è il personaggio in primo piano. Nel nuovo capolavoro di Caravaggio non c’è finzione, teatro; c’è la realtà nuda e cruda, in una perfetta sintesi.
Come lo stesso Caravaggio ci avverte, l’opera è concepita poco dopo “l’Incoronazione di spine”, di cui la più nota è la versione Cecconi ora a Prato, e quindi tra 1605 e 1606, nel momento più drammatico della sua vita, che coincide appunto con la tenebrosa “Cena in Emmaus”, dipinta nei feudi dei Colonna dopo la fuga da Roma, e in cui avvertiamo l’ombra di un irredimibile senso di colpa, che si esprime in uno stile “rapido e sprezzato”, come aveva scritto Roberto Longhi.
Secco, sintetico, drammatico senza retorica, così come sarà nella “Flagellazione di San Domenico” a Napoli (oggi a Capodimonte). Questa è la cifra del nuovo e inconfutabile “Ecce Homo” di Caravaggio.
Siamo al cospetto dice Sgarbi ad un “Ecce Caravaggio” e scolorisce ed impallidisce l’Ecce homo attribuito per errore a Caravaggio dal grande critico Roberto Longhi ed oggi a Palazzo Bianco a Genova.
Ma a Roberto Longhi va invece ed indiscutibilmente il merito di aver reso possibile in Italia ed in Europa il culto di Caravaggio dopo due secoli di rimozione ed accantonamento delle opere del grande pittore. Famosa fu la mostra da lui organizzata a Milano nell’aprile del 1951 che portò alla ribalta il nome di Caravaggio. Bello e ricco di rievocazioni nel libro ne sovviene il ricordo anche con foto dell’epoca.
Il libro si avvale anche della testimonianza di altri critici, Sandra Magister, Michele Cuppone, Giacomo Berra, Barbara Savini, Gianni Papi, che depongono tutti per l’attribuzione dell’ Ecce homo a Caravaggio.
Sgarbi ricordiamolo già aveva scritto un libro (per me il più bello dei suoi) su Caravaggio. “Il punto di vista del cavallo”. In realtà di questo pittore ne è perdutamente innamorato: forse perché Caravaggio è stato un rivoluzionario che ha fatto entrare nel dipinto la palpitante realtà, come se il quadro riproducesse le vicende della vita in una fotografia.
La fotografia è nata nel 1839-40 ma Caravaggio la prefigura già nel 1601, rifiutando di rappresentare la realtà quale dovrebbe essere, come proiezione di sentimenti, di un Bene e di un Male intesi come valori simbolici. Caravaggio osserva e riproduce la realtà esattamente com’è, esattamente come la vediamo in una buona fotografia. Di più: non è fotografia nell’accezione di ritratto posato, è fotografia alla ricerca di una realtà che ci coglie come di sorpresa, dell’“attimo decisivo” cui fa riferimento un grande fotografo come Henri Cartier-Bresson: fotografia come attesa e cattura del momento in cui la realtà si sta determinando.
Con lui, per la prima volta, il valore dell’arte consiste non più nel rispettare la nobiltà e il decoro del contenuto bensì nella capacità tecnica e intellettuale di riprodurre le cose per quello che sono.
La realtà non è più qualcosa da abbellire, da migliorare, da superare, poiché volgare nella sua apparenza: diventa piuttosto l’unico punto di riferimento possibile per l’artista, anche sul piano morale. L’artista deve tendere a far vedere le cose come stanno, a mostrarle nella loro verità, senza finzioni. Perciò Caravaggio sceglie provocatoriamente i suoi soggetti, sapendo bene di mettere in crisi non solo i valori tradizionali dell’arte, ma anche quelli della morale e della religione. Dipinge pezzenti come quelli che si potevano trovare nelle strade della Roma del suo tempo e li trasforma in santi; converte prostitute in madonne, ragazzini di facili costumi in personaggi biblici o mitologici, senza alcun abbellimento, con la loro fisicità schietta, chiassosa, maleodorante, in un modo straordinariamente realistico, lavorando dal vero senza disegni preparatori, riproducendo la luce e l’ombra come nessun artista aveva mai fatto prima: memorabili sono i suoi “ piedi fangosi”.
Caravaggio, dice Sgarbi, può essere paragonato alla doppiezza di Pier Paolo Pasolini, grande poeta, ma di notte frequentatore di quartieri oscuri ove si dispiegava la sua omosessualità.
Caravaggio ha visto la prigione, ha ucciso, frequentato prostitute ed ha riportato nella sua arte pittorica queste semenze, invenzioni, rivoluzionando le tradizionali tenute delle tele di un Tiziano, di un Raffaello, di un Michelangelo. I popolani dei suoi dipinti rappresentano la lotta di classe, il quarto stato, il popolo alla conquista della storia. Egli riscatta nell’arte i più umili perché è convinto che il regno dei cieli appartenga a loro, come dice il Vangelo, non alle alte gerarchie ecclesiastiche o alle corti nobiliari, che si scandalizzano nel vedere i più umili assurti a protagonisti della storia.
Per Caravaggio, gli eroi sono gli umili, in una prospettiva che non vuole conoscere i turbamenti delle anime belle, che è il rifiuto dell’arte come evasione, che è presa diretta sulla realtà. Quella stessa realtà che, se da un lato pervade la sua arte portandola alla più alta espressività, dall’altro precipita la sua vita in tragedia. Il Caravaggio dei primi anni romani è ancora quello descritto dal Mander come sorta di genio attaccabrighe: “Egli è un misto di grano e di pula; infatti non si consacra di continuo all’ozio, ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo dietro, e gira da un gioco di palla all’altro, molto incline a duellare e a far baruffe, cosicché è raro che lo si possa frequentare”.
E commetterà anche un omicidio e morirà- allo stesso modo succederà a Pasolini- in circostanze misteriose.
Con “Ecce homo” Sgarbi è al cospetto di un amore ritrovato, forse il più bello della sua vita di critico.
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