Beni culturali

Direttore nuovo, problemi vecchi: ha da venì la Grande Brera

10 Marzo 2016

“Scusi, questo dipinto da quando è esposto?”. È un ritratto di San Tommaso D’Aquino, di Gerolamo Mazzola Bedoli, minore emiliano del cinqucento. Ma non gli manca davvero nulla per essere un capolavoro del Parmigianino. “Da poche settimane”, risponde l’addetta di sala. “Sostituisce un’altra opera che è stata prestata per una mostra”.

La Pinacoteca di Brera è per me come quelle case che frequenti assiduamente, e se qualcosa nella disposizione degli oggetti viene cambiato te ne accorgi subito. Le occasioni per ritornare a visitare le sue trentotto sale sono determinate qualche volta da mostre temporanee o giornate aperte. Ma capita spesso anche di dover tornare a guardare quel quadro o pittore, a studiarlo da vicino, come nei libri non si può. Al contrario della maggior parte dei musei italiani, la collezione non è solo espressione del territorio, ma abbraccia tutta la storia della nostra pittura, con escursioni di alto livello anche nella produzione europea. Un grande palinsesto, che però i milanesi conoscono poco e hanno finito per rimuovere dai loro consumi culturali. E che da troppo tempo-almeno dall’epoca in cui era soprintendente Stella Matalon, e dunque si tratta di tornare indietro di quarant’anni-attende di essere restituito allo splendore del Dopoguerra, quando le opere salvate dalla distruzione da un grande funzionario, Fernanda Wittgens, partigiana che aveva conosciuto anche il carcere, vennero collocate nelle sale restaurate dall’intervento di Piero Portaluppi.

C’è un numero emblematico che racconta meglio di ogni altro esempio la disaffezione verso la Braidense: nel 2015 i visitatori sono cresciuti del 6% (285.327) e gli incassi del 3% (905.540 euro). L’effetto di Expo è stato dunque molto limitato: nel semestre dal primo maggio al 31 ottobre gli ingressi sono cresciuti del 24%, contro, prendendo a termine di confronto alcune delle istituzioni culturali più importanti della città, il +382% del Museo del Duomo, o il +128% del Castello Sforzesco. L’incremento medio è del 50%, percentuale che sale al 54% se si prendono in considerazione solo i Musei Civici. E poi c’è da considerare anche l’ordine di grandezza: il trend del Cenacolo, con +3% negli ingressi e +5% negli introiti, non è così dissimile da quello della Pinacoteca, se non per la capacità di generare valore. Ma le dimensioni sono molto diverse, se è vero che gli ingressi sono 420.333 e l’incasso di 2.252.377 euro. Prendendo in analisi il botteghino dei luoghi della cultura che in Lombardia sono sotto l’amministrazione statale, Brera è posizionata tra Palazzo Ducale di Mantova (che fattura 1,1 mln di euro e che in occasione di Expo ha avuto un boom, con +62% degli incassi) e le Grotte di Catullo di Sirmione, che per quanto decentrato rispetto all’Esposizione Universale, hanno comunque registrato un +7%, per 712mila euro.

Qual è il problema di Brera? Nelle scorse settimane il nuovo direttore della pinacoteca, al termine dei primi cento giorni di incarico, il canadese James Bradburne ha declinato una strategia di rilancio, che parte dalle piccole cose. Alcune così piccole che forse si sarebbero già potute fare in questi tre mesi, a partire dall’inserimento di banner sulla facciata che mostrino i tesori della collezione, alla sostituzione della segnaletica da ufficio distaccato dell’anagrafe che ancora fa mostra di sé nel cortile, e che è frutto della convivenza forzata tra Pinacoteca, Biblioteca, Accademia e Soprintendenza. Altre chiedono più tempo, come l’attivazione di una caffetteria e di un nuovo shop (in attesa di averli, forse si potrebbe consigliare agli addetti della libreria di non mangiare mentre è in cassa). Ma la sensazione di essere in una no man’s land continua a persistere, tra gli studenti stravaccati nel cortile, i foglietti volanti appesi ai muri con lo scotch, il personale Mibact che il giorno in cui vai a fare la tua ricognizione pianta un’assemblea sindacale old style tra le dodici e le tre, costringendo il museo a chiudere.

Eppure Bradburne ha idee molto chiare sulle cose da fare: niente più prestiti dei capolavori (al momento sono fuori il “Bacio” di Hayez e “La Cena in Emmaus” di Caravaggio,

Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, "Cena in Emmaus" , 1606, 141x175 cm, Pinacoteca di Brera
Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, “Cena in Emmaus” , 1606, 141×175 cm, Pinacoteca di Brera

dunque le due icone della collezione assieme alla “Pala Montefeltro” di Piero della Francesca e allo “Sposalizio della Vergine” di Raffaello), stop alle mostre temporanee, e creazione di un biglietto da dieci euro che dia diritto all’iscrizione gratuita per tre mesi agli Amici di Brera e dunque alla possibilità di tornare tutte le volte che si vuole in Pinacoteca. Il punto fondamentale è aumentare la frequentazione dei milanesi: chi si rechi in un giorno qualsiasi in pinacoteca incontrerà infatti due sole tipologie di pubblico: turisti e studenti. Sopra i venticinque anni la collezione sembra essere off-limits per i residenti. E i dati relativi ai visitatori infatti si gonfiano storicamente a marzo, aprile, maggio e dicembre, quando crescono i biglietti gratuiti (quelli destinati alle scuole), mentre il decremento è molto forte quando la quota di ingressi free è inferiore a quelli a pagamento.

Il conto economico. Nel 2013 il Rendiconto realizzato da Brera con Civicum riportava 128.717 biglietti interi, 102.696 gratuiti, 18.166 ridotti e 1.165 altri ingressi (abbonamenti e ingressi per gruppi). La media giornaliera di ingressi era di 805 unità e l’incasso di 1 milione e 365mila euro, a cui si aggiungono, tra le voci legate direttamente all’andamento della pinacoteca, i ricavi del bookshop (437mila euro), le audio guide (52mila euro) e le visite guidate (47mila euro). Il conto economico complessivo, che prevede anche i ricavi derivanti dai diritti sull’immagine, i contributi privati e l’affitto del concessionario (che è Skira), arrivavano a 2 mln e 237 mila euro. Da questa cifra va però sottratto il compenso al concessionario, che si compone del 70% dei ricavi del bookshop (306.332 euro), delle audio guide (36.472) e delle visite guidate (30.289), a cui si aggiunge una cifra individuata con una gara svolta dalla direzione regionale nel 2008, derivante dalla vendita dei biglietti e del diritto di prevendita (133.673 euro, pari a circa il 10%). La quota ricavi destinata all’erario era di 1 mln 66mila euro. Il ricavo netto scendeva così a 799mila euro.

Tra i costi invece la voce principale era legata al personale, con poco più di 8 milioni di euro, e una media di 49mila euro per 113 dipendenti addetti alla vigilanza (media 49mila euro), 16 amministrativi (41mila euro), 14 tecnici e ausiliari (43mila euro) e 22 storici dell’arte e bibliotecari (56mila euro), per un totale di 165 dipendenti. Cifre di fronte a cui è forse il caso di ridimensionare il mito secondo cui il personale dei nostri musei guadagna una miseria.

Nel 2013 l’onere complessivo per lo Stato relativo a Brera, ossia la differenza tra i costi sostenuti e le entrate, era di 8 milioni 570mila euro. Numeri che in altri casi hanno determinato un commissariamento: l’unico motivo per cui non si è scelta questa strada è che le ragioni del disavanzo erano a tal punto strutturali che solo un cambiamento radicale nel modello gestionale poteva portare un inversione di tendenza. Con la Riforma Franceschini, la Pinacoteca rientra nei venti grandi musei a cui è stata data piena autonomia contabile, amministrativa e finanziaria. Il che significa non solo poter trattenere più risorse, ma anche imparare a spendere in maniera diversa. L’esperimento fatto con Civicum è la dimostrazione più evidente che sino a due anni nessuno si era posto seriamente la questione della trasparenza gestionale. Cambia dunque la mission e con esse le competenze: non a caso Bradburne viene da una realtà come Palazzo Strozzi, la cui Fondazione ha chiuso il 2014 con un attivo di bilancio di 160mila euro, un patrimonio che dal 2006 a oggi è cresciuto di 2,5 milioni di euro (+18%), 370mila visitatori l’anno e soprattutto un aumento dei ricavi rispetto al 2013 dell’80%, a fronte di una contrazione delle spese dell’1%.

Milano, Pinacoteca di Brera, Cortile Interno, foto di Jean-Christophe Benoist
Milano, Pinacoteca di Brera, Cortile Interno, foto di Jean-Christophe Benoist

 

Il piano di  rilancio. I pilastri dell’azione di rilancio immaginata da Bradburne, al di là di un maggior coinvolgimento dei privati e delle aziende, così come della partnership con soggetti esteri, sono soprattutto la ristrutturazione della pinacoteca e il varo della Grande Brera. Il piano prevede il riallestimento in tre anni di tutte le 38 sale, con nuove sedute, wi-fi e uniformi firmate Trussardi per lo staff. Si comincerà nel 2016 con tre nuclei: il primo avrà come fulcro Raffaello, il secondo Mantegna, il terzo Caravaggio. Partire dai capolavori è una scelta obbligata, ma per certi versi può portare a sottovalutare il problema di fondo, ossia la disomogeneità della collezione, enfatizzata da quelle che, in un prezioso pamphlet del 2011 (“Le Rovine di Milano) Giovanni Agosti stigmatizzava come “capricciose predilezioni individuali”. Un capitolo in particolare di quel testo, intitolato “La favola di Brera”, è di fatto l’ipertesto che dovrebbe guidare i progetti di rinnovamento. “…a tratti hai la sensazione di essere non a Milano ma nella pinacoteca di Cesena o San Severino Marche”, scriveva Agosti (che ora è stato cooptato con scelta felicissima nel comitato scientifico della pinacoteca), in riferimento alle “schiere di Palmezzano, Zaganelli e Cotignola, Vittore Crivelli e persino Pietro Alemanno”.

Questo sprofondare delle sale centrali dell’attuale allestimento in una rappresentazione degli esiti periferici del nostro Quattrocento e Cinquecento, così come il soffermarsi troppo a lungo tra la provincia veneta, la Romagna e le Marche, è però uno dei difetti costitutivi del collezionismo politico e di Stato che è all’origine della pinacoteca braidense. Al contrario di quanto avviene per le raccolte statali di Firenze, Roma, Napoli, Torino, Modena e Parma, il museo si è infatti formato non per la convergenza di opere provenienti dalle quadrerie aristocratiche, principesche o di corte. Come avviene per le Gallerie di Venezia e di Bologna, la pinacoteca ha sì origine nell’idea di affiancare all’accademia di belle arti un grande palinsesto didattico; con Napoleone si trasforma però rapidamente in un museo nazionale dove vengono ricoverate tutte le opere requisite nei territori conquistati. Bradburne immagina di affidare agli scrittori contemporanei la schedatura dei capolavori della collezione, rinnovando i linguaggi e avvicinando il pubblico non specialistico. La strada è stata già tentata: non più di due anni, Ermanno Olmi è intervenuto nel ridisegno dell’allestimento della “Pietà” del Giambellino del “Cristo Morto” di Andrea Mantegna (icona del museo alla pari dei grandi capolavori già citati, ma di più difficile fruizione, e ora valorizzato dalla restituzione al punto di vista corretto e dall’inserimento in una sorta di cubo nero che lo inquadra come se si trattasse di uno schermo ad altissima definizione).

Andrea Mantegna, "Cristo Morto", 1475-1478, Tempera su tela, Pinacoteca di Brera
Andrea Mantegna, “Cristo Morto”, 1475-1478, Tempera su tela, Pinacoteca di Brera

Ma senza una visione di fondo che porti a ridefinire i criteri di organizzazione della collezione la qualità media nella percezione del visitatore avrà sempre l’effetto di neutralizzare la potenza dei grandi quadri. Non esistono musei di soli capolavori: ma alla Braidense oggi mancano coerenza di narrazione ed evidenza dei valori. Ossessionati dal numero soverchiante delle opere conservate nei depositi, i funzionari hanno inseguito per anni l’idea di esporne il maggior numero possibile, generando un vero e proprio horror vacui e annacquando l’ideale di uno standard d’eccellenza cui la collezione dovrebbe mirare. La semplicistica riduzione del percorso di visita a un excursus sulle diverse scuole regionali ha condannato di volta in volta alle retrovie e all’invisibilità opere fondamentali per la comprensione delle vicende della pittura in Nord Italia come le tavolette di Martino Spanzotti (testo cardine per il “gran lombardo Testori”, il “Compianto” Düreriano  del cremonese Altobello Melone, il lume notturno dell’  “Adorazione dei pastori” del genovese Cambiaso, sino al “San Carlo in Gloria” di Giulio Cesare Procaccini, manifesto della formidabile azione promozionale orchestrata da Federico Borromeo intorno al culto del cugino, principe della chiesa riformata (e qui dalle arti figurative si sconfina nella storia tout court, con danno ancor più grande per le comprensioni della vicende della città).

La Grande Brera. Come tutti i suoi predecessori, Bradburne ha le idee chiarissime su cosa bisogna fare. Ha ammesso recentemente di passare le serate a leggere i testi di Russoli, scritti tra gli anni sessanta e settanta. Da lì bisogna ripartire, ossia dall’allargamento a Palazzo Citterio. Nel lontano 1972 lo Stato ha acquistato infatti l’edificio del XVIII secolo posto al civico di Brera 12, collegato a Brera attraverso l’Orto Botanico, e ne ha affidato il restauro a Giancarlo Ortelli, Edoardo Sanesi e Giovanni Sacchi. L’idea di Russoli era quella di un grande museo nazionale, che non si limitasse a esporre le 650 opere circa consentite dalla capacità delle sale attuali, ma fosse in grado di dare una collocazione anche alle altre 620 sistemate nei depositi interni e alle 650 dislocate (e dunque di fatto disperse) sul territorio.
Quella che veniva evocata negli Anni Settanta era la visione di un grande distretto delle arti, intese nell’accezione più ampia possibile. Erano gli anni dell’occupazione della Chiesa di San Carpoforo da parte della Fabbrica di Comunicazione e di una Brera che costituiva ancora il luogo dei consumi culturali “alti” della città, non solo con la propria rete di gallerie, con i cineclub, con le performance della Gaia Scienza (ricordate dallo stesso Agosti). Nel 1974 Russoli arrivò, con gesto che oggi lascerebbe di stucco le istituzioni, ma che anche allora fece tantissimo rumore, a chiudere la pinacoteca in segno di protesta, di fronte alle difficoltà crescenti e alla necessità di innescare un dibattito serio tra istituzioni e città sul progetto della Grande Brera.
Quell’idea di espansione si è andata progressivamente sfaldando nella Milano degli Anni Ottanta. Palazzo Citterio ha ballato una sola estate, ospitando la mostra di Burri del 1984 e, pochi mesi più tardi, una rassegna sulle oreficerie della Magna Grecia. Nel 1986, grazie a un investimento di 21 miliardi di lire da parte di Fondazione San Paolo, veniva varata una seconda ristrutturazione, affidata stavolta all’architetto scozzese James Stirling, che aveva firmato l’espansione della Staatsgalerie di Stoccarda e che con il revival del neoclassico aveva vinto il Pritzer Price. Chi più adatto di lui a mettere mano all’edificio settecentesco? E invece niente, un blackout lungo cinque lustri. Nel 2008  viene bandita una gara, per l’attuazione del progetto “Brera in Brera”, basato sull’idea di trasferire l’Accademia di Belle Arti tra Palazzo Citterio e il campus di Bovisa, assegnando così alla pinacoteca l’intero edificio di Brera.Il vincitore è Mario Bellini e Associati. Ma i finanziamenti tardano e qualcuno fa sommessamente notare che il trasferimento dell’Accademia non va considerato un atto automatico, anzi.  E si arriva così al 30 dicembre 2009, allorché Lorenzo Ornaghi, ministro dei Beni Culturali, nomina Mario Resca (manager di lungo corso entrato al Mibac con il ruolo di direttore generale per la valorizzazione del patrimonio) commissario straordinario per la realizzazione della Grande Brera. Resca individua il coordinatore dell’intervento in Mauro Della Giovampaola, che siede nella cabina di regia dell’unità tecnica di missione per la realizzazione delle infrastrutture per le opere per i 150 anni dell’Unità d’Italia. La Grande Brera viene così inserita nel vasto piano di investimenti per le celebrazioni. Il 10 febbraio 2010 Della Giovampaola viene però arrestato perché coinvolto nell’inchiesta sugli appalti per il G8 alla Maddalena. A maggio la Fondazione Trussardi rilancia la location con “Pig Island”,

la personale dell’artista americano Paul McCarthy, quella del George Bush fucsia tra frugolanti maialoni pop: i visitatori, meglio se muniti di ombrello, venivano avviati verso una selva di piloni di cemento armato, quasi che lo spazio espositivo fosse la reincarnazione del Garage romano di via Beccaria dove Fabio Sargentini aveva ospitato negli anni della contestazione Kounellis e Merz, con la differenza che al Garage non pioveva dentro. Nel 2012, Mentre l’edificio è occupato da Macao,

Un momento dell'occupazione di Macao (foto di Camilla Sacerdoti)
Un momento dell’occupazione di Macao (foto di Camilla Sacerdoti)

grazie a un finanziamento di 23 milioni di euro stanziato dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), viene avviato un nuovo piano di recupero, nel quadro di un tridente di azioni che comprende anche il restauro e il consolidamento dei tetti del complesso braidense e l’adeguamento delle ex caserme Carroccio e Magenta, destinate a ospitare attività didattiche e un campus dell’Accademia di Belle Arti. Con una scelta singolare, invece di bandire un concorso di progettazione, si decide di procedere con un appalto integrato. Gli esiti sono resi pubblici con una mostra al Maxxi di Roma: tredici ipotesi, alcune anche molto suggestive, firmate, tra gli altri, da Michele De Lucchi, Italo Rota e Antonio Citterio. In una gara dove tutti giocava al ribasso (con una media superiore al 20%), ad aggiudicarsi l’appalto è la ditta Research Consorzio Stabile”, con il progetto del rettore dello Iuav di Venezia Amerigo Restucci, per una cifra inferiore del 38% su quella di partenza di 13.593.230 euro. Il contratto, dopo un paio di ricorsi al Tar degli altri concorrenti, viene siglato dal direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Lombardia, Caterina Bon Valsassina, che nel frattempo ha pubblicato un libro sull’intera vicenda quarantennale di Palazzo Citterio e curato la mostra del Maxxi, insieme a Margherita Guccione.

“Come mai il parametro di assegnazione in una gara a cui partecipano alcuni tra i più celebrati architetti italiani è il ribasso?”, si chiederà il lettore? In realtà gli uffici della soprintendenza hanno già realizzato un progetto preliminare, dai vincoli molto precisi. Della grande scala progettata da Ortelli e rimasta incompiuta viene per esempio predeterminata la rimozione e sostituzione con un nuovo elemento, di cui si indicano con precisione singolare andamento, rampe, alzate, pedate, ascensori, svasi, pianerottoli. A che serve allora la convocazione delle archistar, ridotte quasi al ruolo di interior designer?
In occasione della firma del contratto la stessa Caterina Bon, il 24 luglio 2012, annuncia che i lavori sono destinati a partire nell’autunno, per una durata di due anni. Ma naturalmente siamo di nuovo in ritardo. Ora Bradburne sposta in avanti il traguardo, fissando al 2018 la piena disponibilità di Palazzo Citterio, in cui saranno collocate anche due delle grandi raccolte con negli anni hanno arricchito la collezione di Brera, finendo per costituire però più un problema che una risorsa. Risale infatti al 1976 la donazione Jesi, la più cospicua che sia arrivata in pinacoteca nel secolo scorso, con opere di Morandi, Giacometti, Picasso, Sironi, Braque, Bonnard, De Pisis. Inizialmente le era stato destinato con intelligenza l’appartamento dell’astronomo, per poi trasferirla nel corridoio d’ingresso, con grande confusione dei visitatori, e la necessità di dislocare diversamente gli affreschi strappati di Bramante e Bernardino Luini. Inizia così un valzer che a oggi non ha trovato una soluzione soddisfacente. L’altra donazione, quella di Lamberto Vitali, ha creato ancor più imbarazzo. Certamente munifica, e però in gran parte incongrua con le collezioni, come ricorda chi ha visto la mostra del 2002, dove apparivano maschere del Fayum con gli occhi di ossidiana, idoli cicladici, una testina di Sant’Andrea dalla basilica di Torcello, sculture orientali e mosaici medioevali.

Allestimento delle Collezioni Jesi e Vitali nelle sale X e XI di Brera
Allestimento delle Collezioni Jesi e Vitali nelle sale X e XI di Brera

Il dubbio dunque resta: la Grande Brera è un progetto destinato ad accrescere il valore delle collezioni, liberandone le potenzialità, o serve piuttosto a liberarsi dell’eccedenza delle raccolte? Durante il periodo di preparazione di Expo, Stefano Boeri ha proposto di esporre i depositi in alcune sedi decentrate. L’idea mi affascinava, e con Stefano, davanti a un caffè da Cucchi, avevamo cominciato a ragionare intorno a un’idea che poteva aiutare lo stesso processo di ridistribuzione delle collezioni. Dagli incontri preliminari con i funzionari della pinacoteca era però uscito un primo elenco di opere assai modesto, che personalmente avevo raccolto come un mezzo invito a desistere. Conservo ancora l’elenco di una quindicina di opere-su 650-che ci venne girato: tre Giulio Cesare Procaccini, tre Daniele Crespi, un Vermiglio, uno Zoppo da Lugano, un Genovesino, due Nuvolone, un Salvator Rosa, un Dughet, due Magnasco, due Barocci, un Pomarancio, un Girolamo Marchesi da Cotignola: riecco il mix inestricabile di Lombardia e Centroitalia, qualità e provincia, stipato in un pdf con le immagini grandi come francobolli.  Vittorio Sgarbi, intercettando l’intuizione di Boeri, aveva pensato di esporre le opere non già con un criterio di diffusione ma sfruttando Palazzo Cusani, di fronte a Brera. L’ipotesi avrebbe comunque consentito alla città di misurare con mano il materiale che è al centro di questo quarantennale piano di espansione. Non se ne fece niente ovviamente, e tutto è rimasto come prima.

Cinquanta grandi dipinti. La narrazione per accumulo di tutte le promesse non mantenute può sembrare forse un esercizio di scetticismo e nulla più. Personalmente credo che possa servire almeno a uscire dalla retorica berlusconian/renziana dei “primi 100 giorni”. Nei primi cento giorni si lavora al programma, e Bradburne saggiamente questo ha fatto. Ma la speranza è che il riallestimento dei tre nuclei previsti per il 2016 proceda per uno snellimento, anche se doloroso, delle opere esposte. Più qualità anzitutto. E subito dopo più semplicità di lettura, più accessibilità. Non sono gli apparati didascalici a dover parlare. Un percorso museale ben fatto deve essere autoevidente, grazie alla relazione che si stabilisce tra gli oggetti, alle interconnessioni che devono essere intellegibili anche al pubblico non specialistico. Deve parlare, perché la storia dell’arte è anche e soprattutto un grande domino di associazione di idee e d’immagini. E se non si insegna al visitatore casual a vederla così, ben difficilmente lo si convincerà a tornare. La scelta degli oggetti è in primis una scelta di linguaggio: la pittura è stata per secoli la sola forma di comunicazione visiva, lo strumento principale di organizzazione del consenso, la parola non scritta. Ma questo gli storici dell’arte tendono sempre a dimenticarlo. E anche l’introduzione del mondo delle app dedicate nel mondo dei musei, a partire dai beacon, tende a isolare il momento della fruizione in una modalità solipsistica di ascolto, esasperando quanto fanno le audioguide. Ma un luogo dove mi sento solo, dove senza gli strumenti di mobilità non ho autonomia, è respingente. Di quante mappe, segni, legende ho bisogno per guardare un quadro? L’inaccessibilità diretta della bellezza è davvero l’indicazione migliore che possiamo dare al pubblico? Perché un percorso sia accessibile la prima cosa è azzerare le interferenze. In fondo la Grande Brera è anzitutto in cinquanta-non uno di più-grandissimi quadri, attorno a cui disporre gli altri elementi del racconto.

Caro Bradburne, perché non partire da qui?

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