Beni culturali
Coreografi a Cortoindanza, il discreto fascino di Beckett
“..We are all born mad. Some remain so.”. “Siamo nati tutti matti. Qualcuno lo rimane”.Così riflette Wladimir rivolgendosi ad Estragon nel secondo atto di “En attendant Godot” di Samuel Beckett, piéce straordinaria che indaga sulla condizione dell’uomo nella società contemporanea, l’impatto con la solitudine e le possibili derive. Perso nel limbo, in quella linea d’ombra tra follia e ragione dove tutto è possibile, in un gioco a perdere tra luce e oscurità è “Quelques-uns le demeurent”, opera prima di e con Alexandre Fandard. Performer di street culture, influenzato dalla krumpin dance e legato al movimento hip hop francese, definisce non a caso la sua danza come “una costante mutazione”. E a vederlo dal vivo nel suo solo c’è da rimanere impressionati per come la sua creazione coreografica collocata nei confini labili tra dance e teatro, visual art (Fandard è anche pittore astratto) e body art riesca a conquistare e sedurre per la folgorante teatralità. Gli occhi dello spettatore seguono le mani del danzatore che compiono giravolte, si aggrappano al proprio collo, percorrono velocemente lo spazio debolmente illuminato, apparendo e scomparendo rapidamente fuori dal cono di luce color ocra. Fandard è una imprendibile visione, soggetto, piuttosto, di cento scatti fuggiti via da un album sfogliato parossisticamente. Pagine archiviate di fretta, gettate via con un click.
Rappresentando plasticamente il conflitto interiore, tra rumori noise e note vivaldiane di “Cum Dederit”, interpretate dal geniale Armand Amar, l’artista francese disegna l’irrompere della follia. Modella così la figura e i gesti ispirandosi a Bacon urlando la disperazione nel trovarsi solo. Inghiottito per sempre dal buio. Non poteva avere migliore carta di presentazione la dodicesima edizione di Cortoindanza, rassegna internazionale di spettacoli e corti d’autore a Cagliari e dintorni allestita Tersicorea con la direzione artistica di Simonetta Pusceddu. Un ricco programma con appuntamenti in spazi e location diverse, produzioni originali di residenze e cantieri iniziato ai primi di maggio con il festival “Logos” e proseguito nei mesi successivi sino alla fine di settembre. L’affascinante “Quelques -uns le demeurent” di Alexander Fandard andato in scena allo spazio T.Off non solo è stato uno dei momenti più alti della intera manifestazione ma anche la conferma della bontà dell’originale formula di attività di programmazione produzione, frutto anche della rete di Med’art che collega diversi partner europei (principalmente Francia, Spagna e Italia). Il solo del danzatore francese è stato infatti coprodotto da diversi enti francesi e ha avuto il sostegno dello stesso “Cortodanza 2018” che lo selezionò come autore partecipante assegnandoli poi l’incentivo come migliore scrittura coreografica.
Così si spiega l’ottimo livello dei partecipanti alla rassegna dei corti, che non è un vero e proprio concorso, ma un festival nel festival. Qui infatti si sono esibite le undici compagnie finaliste (risultato di una selezione su centoventi realtà) provenienti da Portogallo, Spagna, Israele, Italia, Svizzera e Francia. E tutte quante responsabili di corti di interessante livello, sia in termini creativi che performativi. C’è sicuramente una ammirevole capacità nel raccontare il momento del dolore e dell’amore con un coordinamento preciso nei movimenti e nella esecuzione delle geometriche costruzioni dell’intenso passo a due di “Frozen” dell’israeliano Yaron Shamir in scena con Nora Vladiguerov a cui la giuria di esperti e critici di “Cortoindanza 2019” ha voluto attribuire il riconoscimento di migliore scrittura coreografica: probabilmente tornerà il prossimo anno come ospite del festival, come è accaduto d’altra parte a Fandard. Obiettivo sfiorato dalla danzatrice coreografa spagnola Vinka Delgado Segurado a cui è comunque andato un riconoscimento per l’interessante potenziale espresso dalla sua “Napion”, una coreografia giocata molto sulla tensione emotiva rappresentata da un singolare corpo a corpo tra la danzatrice e un pupazzo feticcio al centro di un impossibile incontro.
Per forza interpretativa e tecnica sono stati invece indicati due italiani. Sono Simone Zambelli con “Non Ricordo” e Pablo Girolami per “Mambuhsa”. Dedicato al bisogno di stare ancorati alla memoria è il primo solo che mostra un Zambelli prima scatenato in una progressiva e scatenata danza guidato da una robusta fanfara per diventare poi delicato e melanconico nel suo solo accompagnato dalla struggente melodia dell’”Ave Maria” di Schubert eseguita da Barbara Bonney. Ha scelto invece i paesaggi di dance elettronica di “Ugate Sooraj” di Jota Karloza e ”Over Here” di Eric Kupper & Kenny, entrambi dagli echi tribal e referenze etno, Pablo Girolami per disegnare _ in coppia con Giacomo Todeschi _con efficacia il mondo degli uccelli in “Manbuhsa”, perfetto corto senza sbavature, convincenti figure danzate con tecnica sciolta e convincente.
Ma anche gli altri lavori hanno ricevuto, chi più chi meno, buona accoglienza. Chi con la scrittura in una stagione, chi in una residenza. Sono “D’Istanti” di Erika Maria Silgoner, “Mapa” (Portogallo) di e con Esther Latorre Fernández e Hugo Perreira , “The Home of Camilla” di Giorgia Gasparetto. A “Ain” di Elie Chatagnier (Francia), da segnalare per la freschezza della ideazione coreografica è stato assegnato il progetto di formazione diretto da Anthony Mathieu. Altri riconoscimenti sono andati a “Happy b-day Mr John” di Marianna Giorgi e Jorge Mendes Gonzales (Spagna) autore di un divertente e surreale “O caneco” sospeso tra mimo e clownerie) e infine “Psycopainter” di Simone Deriu. Tornando al festival, a scegliere ancora una volta la musica di Vivaldi sono gli spagnoli Lall Ayguade e Diego Sinninger de Salas, quest’ultimo è il protagonista solitario in scena del solo “Disconnect”, che ha raccontato il 26 giugno nel suggestivo spazio all’aperto dell’Orto Botanico di Cagliari il dramma di un “survivor” .
Un luogo aspro, fatto di cavità naturali, che riporta a uno spazio senza tempo, al possibile scenario di un mondo post catastrofe, dove un uomo (forse l’ultimo sopravvissuto?) si aggira perso completamente. Gli abiti strappati, disfatto nella mente e disarticolato nei movimenti di una non-danza fatta solo di gesti a strappi e pose teatrali. A segnare tragicamente la perdita del senso prima il “Nisi Dominus” (il Rv 608) eseguito dal controtenore Philippe Jaroussky e l’ensemble guidato dal violinista Jean Cristophe Spinosi e poi l’avvolgente “U Lamentu di Ghjesù” del gruppo corale corso di A Filetta. Nella stessa sera, identica location, ancora il coreografo e danzatore Diego Sinninger che con Kiko Lopez della compagnia Rotativa sono i protagonisti in “Liov” di un’estenuante corpo a corpo. Una lotta senza esclusione di colpi che racconta quello che accade ogni giorno nei grandi e piccoli conflitti della nostra società.
Guarda a “Giorni felici” di Samuel Beckett “Beast Without Beauty”, ultima creazione di Carlo Massari, andato in scena nell’ex Distilleria a vapore di Selargius assieme a Emanuele Rosa (e la partecipazione di Giuseppina Randi muta testimone assisa in un angolo che si “risveglierà” alla fine) per richiamare e raccontare anche fisicamente “il male di vivere, la paralysis beckettiana: un uomo illanguidito, disperato fino a diventare insensibile, ormai incapace di prendere in mano la sua vita e sottrarla alla miseria nella quale si è impaludata”. In realtà, sia nei propositi dichiarati che nel dispiegamento dello spettacolo, nutrito di una buona dose di teatralità _ con al centro i passi a due di un Hitler-marionetta e un uomo comune _ emerge una amara sfiducia nei confronti dell’umanità e alle sue miserie fatte di violenza, sete di potere e voglia di comando. E così più che all’uomo e al suo essere un animale sociale viene da pensare allo “stato di natura” descritto da Thomas Hobbes che genera la lotta di tutti contro tutti, dove ogni uomo diventa un lupo per ogni altro uomo.
Efficace la scelta delle musiche che danno ritmo e cuore allo spettacolo, dal Clavicembalo ben temperato interpretato da Zuzana Luzickova alla Nona Sinfonia op.25 di Beethoven e l’avvolgente “Old song” di Klaus Nomi, ridotta alla fine in ripetitivo loop. Affascina la sequenza finale con l’attrice Giuseppina Randi che si alza dalla sedia dove era rimasta per tutta la durata della rappresentazione e avanza sino all’angolo opposto del palcoscenico per cantare con voce rauca una intensa versione di “Have All The Flowers Gone”, ballad antimilitarista di Pete Seger portata al successo planetario negli anni Sessanta dal trio Peter Paul e Mary.
Dalla ispirazione beckettiana all’omaggio a un altro grande maestro della scena contemporanea come Tadeusz Kantor. “Una passeggiata sulla scena come in un cimitero, ricercando le tracce di questa vita che poco fa ci emozionava tanto”. Da questa riflessione del regista e drammaturgo polacco prende spunto “Il sentiero di K”, regia e coreografia di Simonetta Pusceddu, drammaturgia di Anthony Mathieu in scena con Antonio Piovanelli, rappresentato lo scorso 20 settembre negli interni della chiesa romanica di San Giuliano a Selargius.
Un viaggio a ritroso nella memoria, inteso essenzialmente come omaggio a Kantor che, sulle note ossessive della decadente e affascinante Sinfonia n.1, “Titan” di Gustave Mahler (in particolare il più famoso terzo movimento, “Feierlich und gemessen, ohne zu schleppen”) lascia agevolmente spazio ai due attori di improvvisare frugando nel magazzino dei ricordi e del proprio passato. Ineccepibile come sempre Antonio Piovanelli che offre un cammeo della sua arte nella parte finale dello spettacolo. Altra anteprima del festival “Logos”, è stata “Juliette”, regia e coreografia di Loredana Parrella, che debutterà proprio nei prossimi giorni a Vignola in prima nazionale ma che ha avuto un primo battesimo il 28 luglio al teatro romano di Nora per la rassegna Cedac e in replica nei giorni successivi al T.Off di Cagliari. Il festival ha ospitato ancora la compagnia francese Blue Coffe con “Jakob figlio di nessuno” di Jonathan Frau, la compagnia di Pracido Domingo dalla Galizia con “One need not be a chamber to be haunted”, la coreografa Roberta Ferrara con il suo “Equal to men”, il colombiano Oscar Quevedo con “La Giacca”, la danzatrice Stella Pitarresi con “Blu ottobre”. “Clue/Logos” è la coreografia di Lucrezia Maimone pesentata a maggio e a luglio, mentre “Poire” è lo spettacolo del collettivo francese Orobanches con Corneille Arnoult.
Dall’Armenia è arrivata Rima Pipoyan con “Woman before decision making”, mentre da Barcellona è giunto Angel Duran con il suo “The Beauty of Hit” e dal Messico Frida Ocampo per presentare “Laalla (Laia)”. “C’est toi qu’on adore” invece ha visto in scena ancora Alexander Fandard in coppia con Leila Ka, autrice della coreografia mentre “Wall paper” è la coreografia di Sara Angius andata in scena a fine settembre a Selargius ed Alghero. Ultimi due appuntamenti previsti sono: il 26 ottobre (ore 20,30) al teatro Si’e Boi di Selargius “Simposio del silenzio”, creazione di Lucrezia Maimone in scena con Damien Camunez. Il 24 novembre al T.Off di Cagliari andrà in scena “Kalsa” di Giuseppe Muscarello in scena con Maria Stella Pitarresi e infine a dicembre, in via di definizione allo spazio T.Off “Cluedo _ un gioco sull’identità”, coreografia di Lucrezia Maimone con il collettivo Gli Erranti.
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