Beni culturali
Carpaccio e altri “istriani”, sepolti a Venezia dal 1944, tornano visibili
Dopo la bellezza di 73 anni i documenti d’archivio provenienti da Capodistria (oggi Koper, in Slovenia) saranno di nuovo consultabili. Si potrà andare all’Archivio di Stato di Venezia, ai Frari, chiedere, per esempio, gli statuti quattrocenteschi della cittadina istriana e leggerseli. Finora non era possibile; meglio, non era più possibile dal 1944.
La storia di questi e di altri beni culturali istriani – tra i quali alcuni quadri di Vittore Carpaccio – è lunga e intricata.
Nel 1944 gli angloamericani cominciano a bombardare il porto di Capodistria nonché le vicine Pirano e Portorose, prima di allora risparmiati. Si contano alcune decine di morti, ma la vittima più illustre rimane il celeberrimo transatlantico “Rex” che si trovava ormeggiato nella rada di Capodistria: viene colpito, si rovescia su un fianco e dopo la guerra, passati quei territori alla Jugoslavia, viene demolito. Se a qualcuno interessasse, le belle lettere di bronzo che compongono il nome “Rex” si trovano nel Museo navale di Spalato (oggi Split, in Croazia).
Si decide allora di sgomberare da Capodistria un po’ di beni culturali per metterli in salvo. Non le cose più grosse, per esempio la meravigliosa pala di Carpaccio “Madonna in trono con santi” che per fortuna si salva lo stesso e oggi si ammira nel duomo della cittadina istriana. Invece si portano a Venezia altri quattro quadri del Carpaccio che giacciono sepolti nei magazzini della soprintendenza veneziana, senza che nessuno – neanche gli studiosi – possa nemmeno andare in pellegrinaggio ad ammirarli.
Sempre in quel 1944 arrivano a Venezia, nella Biblioteca nazionale marciana, le 57 cosiddette «casse di Capodistria». Si tratta di casse da munizioni stipate con una parte dei 1520 documenti che dall’archivio di Capodistria erano stati trasferiti al museo (esiste un inventario del 1904 che li elenca) e alcuni cimeli, tra i quali la divisa di Nazario Sauro (tuttora data per dispersa dai discendenti della medaglia d’oro al valor militare).
Le casse giacciono per decenni tra i muri dell’ex zecca della Serenissima, dove si trova la biblioteca Marciana. Ne viene negata persino l’esistenza, se qualcuno chiede notizie si reagisce con fastidio. Esistono anche problemi di attribuzione: chi è il «proprietario» di quelle casse? Erano state spostate dal Soprintendente ai beni archivistici, che era anche direttore della Marciana, ecco spiegato perché siano finite lì. Ma una volta soppressa la soprintendenza ai beni archivistici, chi ne risponde? Meglio dimenticarsi di tutto, così in aggiunta ci si risparmiano contenziosi con la Jugoslavia prima e la Slovenia poi. Ogni tanto arriva una richiesta di consultazione da parte di qualche studioso sloveno, il direttore della Marciana la gira a Roma e lì tutto si perde nei corridoi ministeriali: le risposte non arrivano mai.
Nel 2009 l’allora direttrice della biblioteca veneziana, Maria Letizia Sebastiani, poi direttrice della Biblioteca nazionale centrale di Firenze e ora dell’Istituto centrale per il restauro del libro, decide di far aprire le casse: viene effettuata una ricognizione del materiale (si trova in condizioni generalmente buone) e viene disinfettato contro muffe e parassiti. Poi di nuovo l’oblio.
Il primo a rendere pubblica la notizia dell’esistenza delle 57 casse di Capodistria è un libro: “Missione grande bellezza. Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler” (Garzanti). Già il fatto che la notizia sia data da un libro la dice lunga su questa storia: le notizie, per definizione, si bruciano; quindi in genere a darle sono i mezzi di comunicazione veloci, come i quotidiani, la radio, la tv, oggi internet. Periodici e libri servono per approfondire. Invece l’esistenza di queste 57 casse è stata tenuta tanto ben nascosta che si è permesso a un libro di precedere tutti, da internet ai quotidiani. Interrogato sulla questione qualche tempo fa, l’ufficio stampa del ministero degli Esteri ha con candore ammesso di non avere notizie circa l’attribuzione dei documenti; la Slovenia, infatti, vorrebbe che tornino a Capodistria.
Venuta meno la segretezza, evidentemente qualcuno si dev’essere accorto che non aveva senso mantenere quei documenti sepolti nelle casse dov’erano stati collocati nel 1944 e quindi si è deciso di traslocarli nell’Archivio dei Frari dove sono arrivati un mese fa e dove potranno finalmente essere consultati. «Entro un paio di mesi», assicura Raffaele Santoro, che dell’archivio veneziano è il direttore. Aggiunge poi che è in corso un nuovo inventario e precisa di essersi messo in contatto con i suoi colleghi di Capodistria affinché esaminino pure loro il materiale. Non tutti i 1520 documenti inventariati nel 1904 erano nelle 57 casse immagazzinate alla Marciana e quindi si tratta di capire dove siano finiti; potrebbero essere rimasti a Capodistria, per esempio.
Bisognerà decidere il destino della divisa di Nazario Sauro e degli altri cimeli (una corazza Farina, gagliardetti, bandiere) che sicuramente non hanno nulla a che fare con un archivio. Potrebbero essere esposti al Vittoriano, a Roma, per esempio.
Se questa vicenda sembra avviarsi a un qualche tipo di definizione (resta sempre irrisolta la questione della sistemazione definitiva: restare a Venezia o tornare a Capodistria?) ce ne sono altre, invece, ancora ben lungi dal risolversi.
Nelle scuderie del castello di Miramare, a Trieste, sono depositate quindici campane sgomberate dall’Istria durante la guerra al fine di evitare che finissero fuse per diventare cannoni e non si capisce bene cosa ci stiano a fare ancora lì.
Si accennava prima ai quadri. Nei magazzini della soprintendenza di Venezia si trovano quattro opere sgomberate da Capodistria. Si tratta di due profeti, “Geremia” e “Zaccaria”, di Vettor Carpaccio, e di un “Cristo alla colonna” e una “Salita al Calvario”, di Vettor Carpaccio e bottega. Quadri di primaria importanza, dipinti nell’ultimo periodo di vita del pittore veneziano che morì a Capodistria nel 1525. Quadri invisibili, secretati dalle autorità italiane che fino a qualche tempo fa non permettevano neanche agli studiosi di vederli. Nel 2015 è stata organizzata a Conegliano una mostra su Carpaccio in Istria e al curatore non solo non sono stati dati i quadri nascosti nella soprintendenza veneziana per esporli, ma non gli è stato nemmeno permesso di vederli.
Altri oggetti di provenienza istriana – non si sa esattamente cosa – si trovano chiusi in casse nei sotterranei di palazzo Venezia, a Roma. Nel 2002 l’allora sottosegretario ai Beni Culturali, Vittorio Sgarbi, fece tirar fuori, restaurare ed esporre ventuno quadri che oggi si ammirano nella collezione Histria del civico museo Sartorio, a Trieste. Cosucce tipo Alvise Vivarini, Paolo Veneziano, Giambattista Tiepolo e, ancora una volta, Vittore Carpaccio. Il punto è che queste opere sono solo alcune, forse le più interessanti, fra quelle immagazzinate a palazzo Venezia: c’è però molto altro, da opere pittore, plastiche fino alle cosiddette arti applicate, per esempio maniglie bronzee settecentesche di palazzi capodistriani e piranesi. Uno studiosi di origine istriana, Francesco Semi, filologo, ha cercato per tutta la vita di vedere e catalogare il contenuto delle casse conservate a palazzo Venezia: è morto nel 2000 senza poter vedere esaudito il suo desiderio.
A tutto questo va aggiunto che è in corso un aspro, ma sottaciuto, contenzioso tra Italia e Slovenia. Entrambi gli stati rivendicano il possesso delle opere d’arte istriane, ma nessuno dei due governi è disposto a recedere dalle proprie posizioni. L’arte, però, è politica e come ogni questione politica si può risolvere soltanto sulla base di un compromesso che non scontenti alcuna delle parti. Bisogna tuttavia volerlo.
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