Beni culturali

È questo il museo del design che serviva a Milano? No

9 Aprile 2019

Risolviamo subito la prima obiezione, così poi possiamo provare a occuparci di cose serie. Quella per la quale, essendo stata tra i curatori dell’edizione precedente del Museo del design, non sarei obiettiva a giudicare il lavoro attuale che sostituisce, di fatto, quello mio e degli altri predecessori in Triennale. D’altronde, finché non ho curato un Museo del design, l’appunto che si muoveva contro le mie critiche all’operato nel tempo dei vari curatori della Triennale era “prima devi passarci, e poi puoi parlare”. A distanza di due anni da quando sono stata interpellata per la curatela e avendoci lavorato quasi un anno a tempo pieno, penso che abbiano senso entrambe le obiezioni: certo che sono di parte, certo che parlo – cioè scrivo – animata di una passione faziosa, certo che avendo curato l’edizione più controversa, la più attaccata (volevano tirarla giù con cinque mesi di anticipo sulla data originaria di chiusura), non sono neutrale. Ma forse proprio per tutto questo credo di avere un po’ di competenza per dire la mia sul neo-inaugurato Museo del Design della Triennale di Milano, accogliendo per altro l’invito più volte espresso dai suoi stessi attuali curatori a sostenere uno sguardo pluralista sull’istituzione pubblica che tanto ci sta a cuore.

La questione del Museo del design è fitta di intrecci politici, oltre che culturali, oltre che economici per la città. E poiché se capisco bene il Ministero della cultura avrebbe stanziato 10 milioni per il suo prossimo progetto di ampliamento (solo per il Museo della Triennale, ho capito bene?), credo che quello che è stato presentato ieri a Milano meriti una riflessione un po’ più approfondita, naturalmente personale e libera, ma negli intenti un più strutturata dei commenti volatili che raccolgo in giro, a favore o contro. Perciò lo faccio qui.

Provo ad andare avanti con ordine e concentrare in tre punti le tante cose che vorrei dire a proposito.

Numero uno: l’urgenza. Sono tra quelli che credevano nella necessità di dotare Milano di un grande museo del design italiano. Credo che il progetto visionario e ambizioso delle edizioni temporanee, inaugurato dall’ex direttore del Museo del Design, Silvana Annicchiarico, fosse una bella trovata che tuttavia aveva esaurito le sue cartucce e rischiava di congelare una formula mutante in un vincolo stantio. Da quando è stato dato avvio, lo scorso anno, al nuovo corso della Triennale, il presidente Stefano Boeri ha promesso alla città il Museo del design che in tanti aspettavano, e che volevamo caldamente fosse ospitato nella Triennale. Ma, fin dall’inizio, si è trattato di un impegno col freno a mano tirato, formalmente impacchettato da formule come “l’importante è cominciare”, “poi i dettagli verranno aggiustati in corso d’opera”, “è un primo tassello di quello che sarà”, etc. etc. E ora eccoci: con un museo del design che è poco più dello spacchettamento, seppur pulito, onesto e luminoso, di una selezione – temporalmente parecchio circoscritta – di alcuni meravigliosi pezzi dell’archivio della Triennale, qua e là esposti con il packaging nel quale erano riposti e nei casi fortunati accompagnati da qualche pubblicità del tempo, come residuo grafico. Ora, chi ci ha lavorato sa che questo archivio patrimonio della Triennale non è poi così completo, che va fatta una solida politica di acquisizione di pezzi, con criteri chiari e trasparenti. Sappiamo che lo spazio per l’allestimento di un museo come la città si merita, è troppo limitato, se relegato solo alla pur bellissima curva al piano terra. Sappiamo che le risorse economiche sono poche. E che “tutto non si può fare”. Ma non era questo che chiedevamo. Quello che la comunità del design chiedeva e che, dal mio punto di vista, è rimasto senza una risposta convincente è: date queste premesse di cui i nuovi curatori non possono non essersi accorti, perché non prendersi del tempo in più per arrivare con un progetto che non sia il primo passo titubante ma un serio incedere, come forse solo “Milano capitale del design” può permettersi di fare? La città, che evidentemente ha già perso sul primato (abbiamo aspettato vent’anni, tra una cosa e l’altra), perché non ha scelto di giocarsela sul risultato? Voglio dire: ma chi se ne importa se “siamo i primi”; avevamo tutte le chance per dire “siamo i più bravi”. Invece no.

Numero due: la storia e la critica. Il Museo, che sarà permanente almeno per i prossimi due anni e già questo fa un po’ strano, racconta il design italiano dal dopoguerra al 1981 con una timeline di contesto che pur di non essere pallosa, finisce per non dire niente di specifico; con lo srotolamento di una serie di oggetti di archivio che dovrebbero parlare da sé, che parlano da sé, ma che se sostenuti da un decente apparato storico avrebbero potuto dire molto di più. Con 200 pezzi, o poco più, di cui solo una ridotta parte viene fatta raccontare in diretta telefonica dalla viva voce dei testimoni. Indovinate perché? Perché fermandosi all’81 si tratta per la maggior parte di designer morti. Peccato, perché la storia orale poteva raccogliere anche voci parautorali e dare possibilità agli oggetti di raccontare storie sconosciute ai più – la vera unicità del design italiano -, in questo caso anche solo con la voce, visto che la trovata del telefono Grillo di Sapper e Zanuso su alcuni plinti è l’unica concessione a un allestimento molto sobrio, educato, trattenuto che mantiene un punto di vista costante, e distante, su tutti gli oggetti.
Ma andiamo oltre. Per dieci anni, nelle edizioni coordinate dalla Annicchiarico, abbiamo girato intorno alla spinosissima domanda “che cos’è il design italiano e come si mette in mostra?”, offrendo molteplici carotaggi attraverso i quali sondarne la complessità. L’XI edizione del Museo del design, “Storie” (curata da Maddalena dalla Mura, Manolo de Giorgi, Vanni Pasca, Raimonda Riccini e da me per la parte contemporanea) era, nelle intenzioni, una sorta di prova generale per il museo a venire, attraverso l’incrocio della storia del design con le altre discipline che da sempre fanno da contesto transitivo o attivo del progetto: la politica, la comunicazione, la geografia, l’economia, la tecnica, il mercato. E poi c’erano 180 icone per un secolo di storia, allestite su una pedana nera anziché bianca come ora, con didascalie di 1000 battute anziché 100 come ora, spalmate su 100 anni anziché 40 come ora. Noi ci siamo riusciti? No, probabilmente abbiamo fallito nel dare una risposta. Ma il Museo di Joseph Grima che ha inaugurato ieri, a mio avviso, ha rinunciato in partenza alla domanda. Grima è un professionista appassionato e colto, con grandi qualità curatoriali, ma non è uno storico o critico appassionato e colto del design italiano che è stato chiamato a mettere in mostra. E questo si vede. Il comitato scientifico che gli è stato affiancato, a sua volta, composto da progettisti talentuosi e competenti che personalmente stimo molto (nomi come Urquiola, Lissoni, Citterio, Bellini, Novembre e poi Claudio Luti, patron di Kartell), non ha ragione, al di là di Andrea Branzi, di essere definito segnatamente scientifico: mancano designer di altre generazioni e mancano designer stranieri ok, ma soprattutto mancano storici e critici. Mancano teorici. Eppure – lo ha ricordato lo stesso Grima in conferenza stampa – questa storia poggia sul lavoro di giganti che ci hanno preceduto. Perché allora non confrontarcisi, anche per interposta ricerca scientifica, qualora non siano più vivi? O nel caso dei vivi, facendosi dare una mano?

Numero tre: la semplicità, visto che, da quello che sento dire in questi giorni, è la parola più presa di mira sia da chi difende che da chi attacca il Museo attuale. Mi ripeto per l’ennesima volta, sapendo di essere molto poco originale: se la terza edizione del Museo del design, nel 2010, “Quali cose siamo”, curata da Alessandro Mendini con allestimento di Pierre Charpin, fosse stata l’ultima, se fosse arrivata lo scorso anno al posto della nostra, se solo avesse costituito una collezione di pezzi donati dai prestatori in via definitiva alla Triennale, avrebbe visto tutti noi d’accordo nel dire che poteva essere quella stessa il museo permanente del design. Che doveva esserlo. Una collezione ricchissima, credo di 700 pezzi, credo fatta con lo stesso budget di 500k di quella attuale, che teneva insieme – in poco più dello stesso spazio – l’alto e  il basso del design; una mostra che proponeva accostamenti, che metteva in scena sorprese, scarti, scorci di intuizioni che non avevamo mai visto e che non avremmo più visto. Tra le varie edizioni era la più personale poiché immetteva come criterio di analisi quello curatoriale, d’autore, eppure è stata la meno sub specie di tutte e quella che in definitiva ha restituito al meglio il panorama antropologico assai complesso del design italiano, inquadrandolo storicamente dal futurismo ai contemporanei (cento anni). Ed è stata una mostra, non dimentichiamocelo, che al di là del New York Times, accontentava studenti e professionisti di settore che trovavano ragioni per tornare a visitarla e studiarsela, ma anche il turista del design che si compiaceva immergendosi nella storia delle cose con le quali viviamo, e – pensa un po’ – andava benissimo pure per il famoso quanto imprecisato “coreano”, sempre scomodato come se fosse l’alieno che paga il biglietto e si appaga di cullarsi beone tra le icone senza capire più di quello che vede. Certo, di Mendini ce n’è uno.

Ma quel che voglio dire è: era una mostra semplice o era una mostra complessa? Quell’occasione ci ha mostrato che possiamo non scegliere tra un’opzione e l’altra; che si possono tenere insieme entrambe le cose; che si deve tenere insieme entrambe le cose; che la gente, noi, vogliamo entrambe le cose. Ci ha mostrato quali curatori siamo. E non vorrei ci dimenticassimo mai questa lezione. Quindi, pur non condividendone le premesse, non posso far a meno di accogliere il messaggio che viene dritto dalla Triennale in questo momento e che ci mette di fronte a una contrapposizione tra la XXII Triennale curata da Paola Antonelli che nella mostra “Broken Nature” al piano superiore mette in scena lo stratificato futuro del design, da interpretare, studiare, capire attraverso una grande selezione di progetti internazionali e “Il primo passo verso un Museo dell’epoca d’oro del design italiano” che mette in scena, al pian terreno, piedistalli di oggetti che sembrano arrivare dal niente e finire nel niente. Ecco, io non vorrei che Milano raccontasse il design del suo Paese come una necropoli transennata, ma se proprio deve farlo, se dobbiamo chiuderlo lì per passare ad altro, allora vorrei che lo facesse con la potenza di Pompei ed Ercolano.

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