Arte

Van Dyck e la nuova poetica degli affetti

25 Marzo 2018

La seconda folata nordica che cambia per sempre la pittura italiana si chiama Antoon Van Dyck. Proveniente da una ricca famiglia di commercianti di seta di Anversa, che lo avviò (era il settimo di dodici figli) alla pittura a dieci anni, Van Dyck era stato collaboratore di Rubens, di cui cominciò a rielaborare con forte tratto personale lo stile a partire dalla conclusione del secondo decennio del Seicento, quando dipinse “L’imperatore Teodosio e Sant’Ambrogio”, a ridosso del soggiorno londinese, alla corte di Giacomo I, che gli concesse una pensione annua di 100 sterline, mentre il suo protettore, il conte di Arundel, gli accordò il permesso di compiere un viaggio di studi di otto mesi.

Antoon Van Dyck, “L’imperatore Teodosio e Sant’Ambrogio”, Londra, National Gallery, 1619-1620, olio su tela, 147×114 cm.

Non si trattava di un vero e proprio viaggio di formazione. A ventun anni, di fatto Van Dyck aveva ormai completato il suo percorso di studi e possedeva a pieno titolo la capacità di misurarsi coi principali maestri europei. Partì per la meta tradizionale dei pittori fiamminghi, l’Italia, con l’ambizione di studiare i maestri del Quattrocento e Cinquecento, ma anche di affermarsi come ritrattista.

Il suo primo approdo italiano fu, nel novembre del 1621, Genova, dove prese alloggio presso Lucas e Corneliis de Wael, suoi connazionali, artisti e collezionisti, che lo introdussero nelle migliori famiglie del patriziato locale, presentandolo come allievo diretto di Rubens. Al contrario del maestro, che era giunto in Italia senza grandi esperienze alle spalle, Van Dyck aveva già licenziato centinaia di dipinti. Le case degli Spinola e dei Doria, dei Lomellini e dei Durazzo, lo accolsero con entusiasmo, facendone in pochi mesi il primo pittore della città, e decretando ciò che forse neppure ad Anversa era a quelle date così evidente: il giovane Antoon era a pieno titolo il continuatore di Rubens, di cui rileggeva lo stile in modo più attento alla lezione del cromatismo veneziano e in qualche maniera meno esuberante, con un linguaggio che avrebbe improntato fortemente gli esiti della pittura italiana a partire dal suo passaggio e per i decenni successivi.

Uno degli elementi che distingue i due grandi maestri è il sostanziale disinteresse di Van Dyck per il mondo classico. Se Rubens trascorreva la maggior parte del tempo dedicato allo studio a copiare dall’antico, quando giunse a Roma dopo aver lasciato Genova Van Dyck preferì concentrarsi sui dipinti del Rinascimento, in particolare su quelli che poteva osservare nelle collezioni Borghese e a Palazzo Ludovisi. Nella città del Papa, dove realizzò uno dei suoi ritratti più famosi, quello del cardinal Guido Bentivoglio, entrò in contrasto con la scena locale, come ricorda il Bellori nelle sue “Vite”, ritraendolo come un uomo schivo, che non amava mescolarsi ai colleghi e frequentare le taverne: “Erano le sue maniere signorili più tosto che di uomo privato, e risplendeva in ricco portamento di abito e divise, perché assuefatto nella scuola del Rubens con uomini nobili, ed essendo egli natura elevato e desideroso di farsi illustre, perciò oltre li drappi si adornava il capo con penne e cintigli, portava collane d’oro attraversate al petto, con seguito di servitori. Siché imitando egli la pompa di Zeusi, tirava a sé gli occhi di ciascuno: la qual cosa, che doveva riputarsi ad onore da’ pittori fiamminghi che dimoravano in Roma, gli concitò contro un astio e odio grandissimo: poiché essi, avvezzi in quel tempo a vivere giocondamente insieme, erano soliti, venendo uno di loro nuovamente a Roma, convitarsi ad una cena all’osteria e imporgli un soprannome, col quale dopo da loro veniva chiamato. Ricusò Antonio queste baccanali; ed essi, recandosi a dispregio la sua ritiratezza, lo condannavano come ambizioso, biasimando insieme la superbia e l’arte”.

Antoon Van Dyck, “Ritratto del Cardinal Antonio Bentivoglio”, Firenze, Palazzo Pitti, 1625 circa, olio su tela, 195×147 cm.

Dopo l’impatto difficile con Roma, Van Dyck si spostò a Firenze, e passando per  Bologna e Parma, dove studiò certamente con attenzione Correggio e Parmigianino, giunse a Venezia, dove entrò in contatto con Cesare Vecellio, nipote di Tiziano, che gli fece da guida. Nei taccuini che riportò dall’Italia, l’attenzione è anche per Giorgione, Tintoretto, Bellini, ma l’interesse dominante è per Veronese e appunto Tiziano, di cui copiò non meno di duecento opere.

Tiziano Vecellio. “Il tributo della Moneta”, Londra, National Gallery, 1568, olio su tela, 112×103 cm.

Va a mio parere considerata successiva a questo momento l’elaborazione di una composizione, quella del “Tributo della moneta”, che la critica svincola invece solitamente dal soggiorno a Venezia e dalla conoscenza diretta di Tiziano, che dipinse una scena analoga per Filippo II (ora alla National Gallery di Londra). Nel taccuino italiano di Van Dyck non compare uno schizzo di questo dipinto, e questa circostanza ha portato a immaginare che il giovane Antoon lo conoscesse solo attraverso le stampe di Cornelis Galle il Vecchio o di Martino Rota. Pare francamente semplicistico far risalire la conoscenza tonale tra le due tele a un’osservazione di copie di bottega. Quel che conta è la sicurezza con cui il fiammingo si confronta con Tiziano, optando per una serie di varianti alla composizione del cadorino che ricordano di fatto la pratica ricorrente nella grafica di Rubens al cospetto dell’antico. Il fariseo è spostato a maggior distanza dal Cristo, che rappresenta il fulcro leggermente decentrato del dipinto, ed è probabile che il fiammingo conoscesse, direttamente o indirettamente, anche l’altra redazione di questo soggetto di Tiziano, quella che ora a sta a Dresda, che è impaginata come il dipinto di Palazzo Rosso (che è invece in contrapposto rispetto a quello di Londra).

Antoon Van Dyck, “Il Cristo della moneta”, Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Rosso, 1624/26, olio su tela, 142×111 cm.

L’episodio evangelico descritto è quello in cui i farisei domandano a Gesù se sia giusto o meno pagare il tributo a Cesare, e in risposta vengono invitati a osservare cosa compare sulla moneta. Quando replicano che l’immagine riprodotta è quella dell’imperatore Tiberio, Cristo indicando l’effige pronuncia la famosa sentenza: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”.

Il dipinto di Va Dyck apparteneva alle collezioni del doge Giovanni Battista Brignole Sale, dove è ricordato in un manoscritto del 1748. Era esposto nella Sala dell’Inverno, dove rimase almeno sino al 1861, quando è elencato in un catalogo della Galleria di Palazzo Rosso, che nel 1874 verrà donato al Municipio di Genova. In quel momento il dipinto venne trasferito all’Hotel de Matignon, a Parigi, dove rimase sino alla morte di Maria Brignole-Sale, per poi rientrare a Genova grazie a un legato della duchessa nel 1889. Nulla sappiamo a oggi della storia di questa tela ante 1748, ma è probabile che sia stata dipinta al rientro a Genova di Van Dyck, dopo il secondo passaggio romano del 1623. Non possiamo dimenticare che a Roma tra coloro che mostrano in qualche modo di recepire nel proprio percorso di formazione anche la lezione di Van Dyck c’è Giovanni Serodine, che proprio attorno al 1625 ci lascia a sua volta una propria redazione del “Tributo della moneta”, impostata su di asse simile a un’altra opera coeva dell’asconese, il “Commiato tra Paolo e Pietro sulla via del martirio”, e ancora attraversata da qualche reminiscenza caravaggesca, specie nei ritratti dal vero dei farisei, in cui si riconoscono i volti dei famigliari del pittore, ricorrenti in tutte le opere che restano nel suo sparuto ma eccezionale catalogo.

Giovanni Serodine, “Tributo della moneta”, Edimburgo, National Gallery of Scotland, 1624-1626, olio su tela, 145×225 cm.

Van Dyck si muove dunque tra i diversi luoghi di produzione dell’arte italiana approfondendo la conoscenza dei nostri maestri e influenzando i propri contemporanei. Il dipinto di Palazzo Rosso è esposto a Milano nel contesto della mostra “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri” alle Gallerie d’Italia, dove è stato convocato all’interno di una sezione che il curatore Alessandro Morandotti ha voluto intitolare “Moti e affetti”, in cui prende forma un confronto tra i due grandi protagonisti della pittura genovese all’ombra del collezionismo di Giovan Carlo Doria, Giulio Cesare Procaccini e Bernardo Strozzi”, e i due “giganti” fiamminghi, Rubens e Van Dyck. Confronto declinato su di un tema specifico, quello delle teste di apostoli e santi (e in qualche caso del Salvatore) che Morandotti pone in dialogo ideale con i personaggi dell’ “Ultima Cena” di Sant’Annunziata del Vastato del Procaccini. Questi soggetti cominciavano ad allora ad assurgere al rango di genere autonomo nei quadri da stanza a destinazione devozionale, e presto avrebbero avuto una fortuna e diffusione di dimensione europea, con gli esempi di Rembrandt e del Grechetto, a cui seguiranno quelli di Piazzetta e dei Tiepolo. Ma non va dimenticato che le radici del successo di queste “teste di carattere” va cercata nella devozione post-tridentina e controriformata, e dunque nell’ambito della cultura che soprattutto a Milano si diffuse nell’età dei Borromeo. Nel Seicento l’espressione degli affetti diventa uno degli elementi fondamentali nel linguaggio pittorico, non solo in chiave di teatralità barocco, ma anche all’interno di una retorica fatta di effetti più sottili e meno altisonanti, ma che pur sempre retorica è, come si apprezza osservando le lacrime impastate alle barbe dei santi o le espressioni estatiche.

Van Dyck rappresenta in tal senso un momento di parziale raffreddamento di quest’enfasi, come si desume anche dall’altra sua opera presente in mostra, il “Cristo con la croce” proveniente anch’esso dalle raccolte di Palazzo Rosso, ma che è stato dipinto presumibilmente ancora nelle Fiandre, nel 1619, due anni prima della partenza per l’Italia. F0rmato, supporto su tavola e iconografia fanno pensare che il quadro facesse parte di un ciclo raffigurante “Cristo e i dodici apostoli”, secondo un’usanza allora diffusa nell’Europa del Nord ma anche in Italia. Tanto Rubens quanto Van Dyck risentono ancora, nel momento in cui affrontano queste serie, del modello costituito dall’ “Ultima Cena” di Leonardo: due secoli dopo si continuavano a emulare un po’ ovunque le tipologie fisiognomiche individuate nel refettorio di Santa Maria delle Grazie.

Anton Van Dyck, “Cristo con la croce”, Genova, Musei di Strada Nuova-Palazzo Rosso, olio su tavola di rovere, 64,5×49,8 cm.

Questa piccola tavola è stata a lungo considerata di Rubens, forse perché appare in strettissima relazione con un’incisione di Peter Isselburgh che era tratta da un “Cristo” di Peter Paul che stava a pendant della serie dell’ “Apostolado” ora al Prado, e poi è finito disperso. Il carattere di non finito dell’olio di Van Dyck, che probabilmente ha subito una parziale perdita di materia nello sfondo, enfatizza se possibile la tecnica in velocità e la capacità di fare della stessa stesura pittorica un elemento che amplifica il pathos proprio dell’immagine devozionale.

A un momento praticamente coincidente con la realizzazione del dipinto di Van Dyck risale la serie di tavole di “Cristo e i  Dodici apostoli” di cui parlano le lettere che Rubens inviò a sir Dudley Carleton nella primavera del 1618. In quelle missive, scritte in italiano, il pittore parla esplicitamente di una replica autografa, ma che coinvolge anche la sua bottega, della serie fatta nel 1611-1612 per Francisco Gomez de Sandoval y Rojas duca di Lerma, il ministro più potente della corte di Filippo III di Spagna. Nella raccolta della Galleria Pallavicini di Roma restano un “San Paolo” e un “San Mattia” che alla luce della stesura molto brillante possiamo ritenere nelle parti più delicate e di maggior impegno certamente autografe. La serie promessa al Carleton deve dunque essere rimasta nella bottega del pittore almeno sino al 1625, per essere poi acquistata a Genova dal finanziere Giovan Battista Pallavicino. Il fratello ed erede di questi, Lazzaro, divenne cardinale, ed è nella sua dimora romana, in via dei Giubbonari, che sono inventariati “Tredici quadri rappresentanti nostro signore e gli apostoli di palmi tre e quattro figure al naturale del Rubeni”. Dopo la morte del porporato, la serie passò alla nipote Maria Camilla Pallavicini Rospigliosi, che nel 1708 acquistò il Palazzo Mazarino sul Qurinale, dove sono ricordati in diversi inventari successivi, sino a pervenire all’attuale proprietà.

Peter Paul Rubens e bottega, “San Mattia”, Roma, Galleria Pallavicini, 1613-1620, olio su tela, 105×74 cm.

Una serie di “Dodici apostoli” viene citata anche in uno degli inventari post morte di Giovan Carlo Doria. Ne fa menzione il pittore Simon Vouet, che in una lettera inviata proprio al Doria il 9 novembre 1621 dice di aver visto nella casa-bottega di Giulio Cesare Procaccini a Milano in Porta Romana  “gli apostoli che dipinge per V.S. illustrissima (…) dice di mandargli il tuoto in anzzi natale”. Poi il lavoro ha un rallentamento a causa di una “febbre acuta” che colpisce il pittore e non sappiamo esattamente quando la serie venne completata, ma di fatto riusciamo poi a seguirne le sorti all’interno della collezione Doria, sino a quando questioni legate all’eredità portarono allo smembramento: un apostolo venne venduto nel 1674, altri cinque successivamente, e quattro di questi arrivarono poi nel 1730 nelle raccolte di Giovan Francesco Brignole-Sale. Si tratta delle tele poi menzionate per la prima volta a Palazzo Rosso nel 1756, e pervenute nelle raccolte civiche attraverso lo stesso atto di donazione che interessò il già citato dipinto di Van Dyck. L’identità degli attributi iconografici, che hanno consentito a Piero Boccardo di superare le indicazioni generiche come “Apostoli” che ricorrevano negli inventari, così come la raffigurazione di tre quarti, spingono a considerare la serie rubensiana un riferimento diretto, anche se Giulio Cesare si attiene a una misura ancora legata ai suoi modi tardo-manieristi e alla sua formazione di scultore, dando vita a torsioni plastiche e figure che sono meno immediatamente comunicative di quelle del maestro fiammingo.

Giulio Cesare Procaccini, “San Paolo” , Genova. Musei di Strada Nuova, Palazzo Rosso, 1621-1622, olio su tela, 122×90 cm.
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