Arte
“Una settimana di bontà”, Max Ernst e i romanzi per immagini
Tra il 1929 e il 1934 Max Ernst spese un po’ del suo tempo a tentare di formalizzare l’idea che metteva in stretto rapporto l’immagine e la sua capacità di narrare storie attraverso accostamenti sequenziali. Lo fece per mezzo di tre lavori che definì “romanzi per immagini”. Erano La donna 100 teste (1929), Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo (1930) e Una settimana di bontà (1934). Vale la pena di ricordare che sono tre opere straordinarie perché anticipano di molti anni tendenze che successivamente faranno la fortuna di grandi artisti dell’illustrazione e del fumetto (si pensi al lavoro di Edward Gorey, tanto per citarne uno che ha assimilato perfettamente la loro carica espressiva), ma anche perché possiedono incredibili qualità inerenti a un surrealismo acido, complesso e stratificato.
La forza stridente intrinseca alla tipologia di assemblaggio di questi romanzi è amplificata dalla tecnica utilizzata da Ernst per realizzarli: sono infatti collage di illustrazioni ricavate da feuilleton dell’Ottocento e dei primi del Novecento, che in qualche modo portano in grembo già essi stessi una notevole carica onirica. Quello che l’artista tedesco pare intraprendere nei sei anni in cui lavora a queste opere è un percorso di sperimentazione che lo porti nei luoghi in cui l’immagine riesca a liberare tutte le sue potenze di flusso narrativo, uno spazio in cui venga percepita come sola e unica guida nella corrente a tratti insulsa e narcisista della scrittura automatica di stampo surrealista. Se infatti in La donna 100 teste e Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo l’immagine è ancora ancella della parola scritta, in Una settimana di bontà trova la via di fuga diventando unico motore del racconto (legandosi solo e unicamente alle indicazioni prodotte dai vari titoli dei quaderni nei quali l’intero lavoro è suddiviso).
Al di là però della presenza o meno della parola, lo scontro è tutto sul terreno dei concetti: che sia l’Edipo, l’acqua, il fuoco o le descrizioni di gesti o azioni, il vigoroso intento di far deflagrare l’interpretazione di ogni lettore in mille rivoli è evidente e potremmo dire anche provocatoriamente beffardo. Come scrive Giuseppe Montesano nel suo breve saggio Le sirene cantano quando la ragione si addormenta, “Nessuno tra gli artisti della Modernità ha portato così lontano come Max Ernst l’elemento che mette la parola fuori gioco e costringe il pensiero stesso a ricomporre il proprio alfabeto: nei romanzi-collage le cose hanno perso la parola, ma hanno guadagnato l’immagine”.
E sono per questo cose che fluttuano, si scontrano, muoiono e risorgono. Cose animate, fatte di esseri viventi inesistenti e di mondi immaginari impossibili e possibili allo stesso tempo, reali e irreali come la più vera delle realtà. Sono cose in quanto sono tutto ciò che esiste di concreto o di astratto, di materiale o d’ideale. Sono l’inconscio fatto mondo, sono il surrealismo più tangibile mai toccato da un’immaginazione umana. Sono capolavori e tali resteranno perché sono immagini che ci nutrono tanto quanto noi nutriamo loro.
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